Rassegna stampa

Viaggi ai limiti del possibile

di Roberto Casati

La filosofia non è ancora stata studiata dal punto di vista antropologico. La ragione principale è che raramente si immagina la filosofia al di fuori del contesto strettamente accademico, anzi del dipartimento di filosofia, e se si dovesse rispondere a domande su chi fa filosofia, e perché, le sole risposte che parrebbero meritare un approfondimento riguardano le vite dei filosofi, peraltro non sempre di grande interesse. Ma può darsi che si stia guardando nel posto sbagliato, ovvero che la filosofia sia anche altrove; non si sono forse viste le pagine culturali dei quotidiani, o i caffé filosofici? Eppure anche al di là di questi ci sono luoghi della filosofia che sono abbastanza insospettabili.

Se si vuole cogliere il significato di molta riflessione filosofica, si deve pensare al tipo di domande cui ciascuna disciplina scientifica o attività umana può o non può rispondere nei limiti della disciplina o dell’attività. Un astronomo può determinare se un certo corpo celeste sia un pianeta o un satellite, ma non c’è un’osservazione astronomica che determini che cosa sia un pianeta o un satellite. Un legislatore può attribuire dei diritti a una persona, ma non c’è una legge che decreta che cosa sia una persona.

Uno statistico può misurare una variabile dipendente come la criminalità, ma definire la criminalità, e quindi la variabile che si intende misurare, non rientra nei limiti dell’indagine statistica. In tutti questi casi si impone una riflessione concettuale, che fa tipicamente parte della metateoria di ciascuna teoria scientifica, e coinvolge anche la microteoria sul proprio operare cui fanno riferimento gli artisti, i legislatori, e chiunque agisca sulla base di una riflessione esplicita su quello che sta facendo.

Il che significa che la filosofia è profondamente diffusa, e che un antropologo dovrebbe guardare un po’ dappertutto per raccogliere dei dati interessanti sul fare filosofia come attività umana.

Il nostro antropologo noterebbe alcune cose: che le grandi questioni filosofiche non sono che una piccola parte delle questioni filosofiche attestate; che ci sono questioni filosofiche sempre nuove e inedite perché ci sono attività e teorie sempre nuove su cui riflettere; che alcune questioni filosofiche importanti vengono presentate da persone che non sono filosofi di formazione o di professione; che più o meno tutti coloro che riflettono esplicitamente su quello che fanno accedono a tecniche filosofiche; che le tecniche filosofiche sono in continuità rispetto ad attività di pensiero che non sono tipicamente filosofiche, come l’immaginazione artistica.

Questo preambolo per parlare dell’ultimo punto, delle tecniche filosofiche, e di come queste comunichino con altri tipi di pensiero. Una di queste tecniche è lo straniamento, ovvero il presentare alcune situazioni ordinarie in un contesto che rende sorprendenti, e quindi degni di approfondimento, i concetti che utilizzeremmo per descrivere tali situazioni. Cartesio è il grande maestro dello straniamento, e filosofi come Husserl, Wittengenstein, e Strawson ne hanno fatto un uso dichiarato e sottile, a tratti divertente, a tratti inquietante. Uso deliberatamente la parola "inquietante" in quanto la sfera emotiva è implicata nel meccanismo che usa lo straniamento per mettere a fuoco i concetti; dove si tratta di emozioni vissute, e non soltanto narrate come quelle di molte filosofie della vita di origine romantica; il lettore deve provarle in prima persona.

Nell’arte lo straniamento ha avuto teorici illustri come Brecht; ma come spesso avviene bisogna andare a guardare le serie B per vedere il meccanismo in azione al suo meglio. L’esempio più eclatante è quello della Twilight Zone, una serie di brevi telefilm presentata in Italia con il titolo "Ai confini della realtà", che nella sua prima uscita statunitense, dal 1959 al 1964, aveva medie di otto milioni di spettatori a episodio, con cadenze settimanali.

È vero, il contesto americano era forse quello di un’offerta televisiva tra western e polizieschi che non dava spazio a trame più immaginative che quelle che mostrano i cattivi spesso perdenti, e poi a volte vincenti. E qui di colpo ci sono invece storie in cui la morte (impersonata da Robert Redford) convince una vecchia signora ad accettarla, in cui le persone devono fare i conti con dei loro doppi metafisici, in cui ci si chiede fino a che punto si può amare un robot, in cui la possibilità di cambiare il proprio volto non aiuta un malintenzionato, o ancora in cui un viaggio nel tempo non salva nessuno dal proprio destino, e addirittura condanna chi pensava di sfuggirvi.

La classificazione di questi episodi come "fantascienza" non è sufficiente; alieni e robot sono ingredienti marginali, peraltro quasi familiari in un paesaggio che spesso è quello della cittadina di provincia americana. Importa invece il particolare meccanismo delle storie. Non si vedono maledizioni della strega, non c’è un deus ex machina. Non ci si chiede: come siamo arrivati fin qui, ma: adesso che siamo qui, e che tutto è diverso, che cosa facciamo? Che cosa possiamo fare? Sono le domande che si pone il filosofo – e parlo del filosofo diffuso – davanti alle situazioni straniate, o estranee, che gli impone un nuovo assetto sociale (eravamo sudditi, ora siamo cittadini, che cosa cambia?), un’opera d’arte inclassificabile (l’Oiseau di Brancusi è davvero un’opera d’arte?), una problema di una teoria scientifica (se il tempo è ciò che un orologio misura, come facciamo a sincronizzare i nostri orologi?).

C’è un comune sentire con lo sceneggiatore e il regista; non che gli episodi della Twilight Zone siano per ciò stesso da annoverare tra i contributi alla filosofia contemporanea; ma certo li indicherei come tema di ricerca sul campo al nostro antropologo.

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