Rassegna stampa

Tre asset contro l’offensiva asiatica

Che l’Europa sia un mercato fieristico maturo, con tassi di crescita del tutto limitati appare un fatto ormai acquisito, così come appare acquisito il fatto che gli investimenti incrementali in comunicazione fieristica da parte degli espositori europei vengono destinati in misura crescente alle manifestazioni dei mercati orientali, dove si fanno buoni affari e si incontrano nuovi sbocchi e opportunità di vendita. È lì infatti che la domanda di prodotti del manifatturiero (soprattutto di prodotti intermedi e di beni strumentali) ha i migliori tassi di sviluppo. E così, accanto alla crescita tumultuosa di quelle economie si osserva anche una crescita tumultuosa di manifestazioni e quartieri fieristici, che ospitano quote crescenti di espositori esteri (tra cui molti europei) e di visitatori esteri. Nel giro di 4-5 anni, il mercato fieristico asiatico ha raggiunto infatti una dimensione di vendite pari a circa 8,5 milioni di metri quadrati annui (di cui la Cina rappresenta quasi il 50%), contro i 40 milioni dell’intera Europa, raggiunti in più 30 anni. Il mercato fieristico cinese in particolare sta avendo una crescita pari al 30-40% all’anno.

Questa domanda così vivace sta prospettando per le fiere orientali un futuro da fiere hub intercontinentali: una domanda forte attrae infatti numeri elevati di espositori, che a loro volta attraggono domanda (visitatori) da altre parti del mondo, che a sua volta attrae altri espositori da aree più lontane e così una fiera diventa la piazza di riferimento mondiale, in cui si possono vedere le prospettive settoriali prima ancora di fare affari. Attualmente molte delle fiere hub per i prodotti del manifatturiero tradizionale sono localizzate in Europa (ad esempio Milano e Parigi sono hub fieristici di primo livello per settori come arredamento-design e moda-abbigliamento; Hannover e Colonia hanno fiere di riferimento mondiale per vari comparti della meccanica strumentale, Francoforte per alcuni tipi di prodotti di consumo, e così via), ma la crescita orientale appare davvero insidiosa e molte di queste manifestazioni iniziano già a sentire i primi contraccolpi.

Nella prospettiva dello sviluppo dell’Oriente e soprattutto della maggiore visibilità/internazionalizzazione delle fiere di quelle aree, quali conseguenze si avrebbero sulle produzioni europee? Ci sarebbe solo la limitazione dei metri quadrati venduti nelle fiere o si avrebbero altre conseguenze? È importante ricordare che le fiere hanno costituito per l’Europa, e in particolare per l’Italia, la principale spinta all’internazionalizzazione delle imprese e al loro sviluppo commerciale, rappresentando sul piano commerciale l’equivalente di ciò che i distretti industriali hanno rappresentato sul piano produttivo: hanno consentito cioè, attraverso il "marketing collettivo" di superare la barriera che molti vedevano come insormontabile, quella dei limiti della piccola dimensione delle imprese nella concorrenza con le imprese molto più grandi, presenti negli altri paesi. Inoltre la presenza di manifestazioni rinomate nelle aree di offerta ha dato visibilità in tutto il mondo ai distretti locali e alle competenze del manifatturiero dei principali paesi. Rinunciare a questo significherebbe innanzitutto una grossa perdita di visibilità per le imprese minori, che non sono attrezzate per partecipare alle manifestazioni extraeuropee; significherebbe inoltre appiattire la presenza della nostra industria all’interno delle fiere extraeuropee, dove i concorrenti sono migliaia e le possibilità di fare massa critica e di caratterizzarsi sono certamente minori.

Che fare? Non si può certo restare a guardare e lasciare che questo processo si compia senza nemmeno tentare di bloccarlo. Una fiera può fare il successo di un’industria locale, se riesce ad attivare spirito di iniziativa, innovazione, cooperazione e massa contro la concorrenza, così come l’esperienza di alcune memorabili iniziative ci ha insegnato. Le storie di certe manifestazioni della moda che hanno usato lo strumento della "concertation" delle tendenze di moda per costruire sistemi di cooperazione tra diversi paesi europei e battere la concorrenza extraeuropea dovrebbero essere di esempio. La fiera non è solo lo specchio del mercato: può essere uno strumento di guida e di costruzione del mercato stesso, se gli espositori coinvolti e le associazioni hanno capacità di marketing e voglia di cooperare. Un recente lavoro tra gli associati del Cfi (Comitato Fiere Industria) ha dato utili indicazioni in tal senso. Ne richiamo solo tre, che potrebbero "fare la differenza". La prima concerne la partecipazione "proattiva" degli espositori. Le fiere potrebbero essere migliorate se gli espositori – soprattutto i più piccoli, che sono spesso al traino dei leader – fossero più preparati alla partecipazione fieristica (molti mancano delle competenze di base di marketing e di comunicazione) e fossero più orientati al mercato (anziché al prodotto). La seconda concerne il modo di lavorare degli organizzatori, che dovrebbero orientare maggiormente le manifestazioni al visitatore e alla domanda. La maggior parte delle manifestazioni risente della relativa "vicinanza" degli espositori e del loro scarso orientamento al mercato, mentre vi è difficoltà a comprendere i mercati target (i visitatori) e a percepirne le evoluzioni, e questo dovrebbe essere invece il principale ruolo dell’Organizzatore. La terza riguarda infine le partecipazioni a fiere estere che sono uno strumento attorno a cui si dovrebbe ricostituire la collaborazione tra organizzatori fieristici italiani dello stesso settore o di comparti complementari, e tra i diversi Organismi della promozione internazionale. Oggi la promozione internazionale subisce due grossi limiti: quello della regionalizzazione del sistema dei contributi, e quello della molteplicità degli attori (ministeri, Ice, Camere di commercio, Regioni…) per cui vi è una moltiplicazione di iniziative e una percezione confusa sulle competenze del made in Italy all’estero. Per incentivare la collaborazione (tra organizzatori e tra attori della promozione) basterebbe in fondo definire ogni anno, per ciascun settore, specifiche aree geografiche e un limitato numero di iniziative su cui far convergere gli interventi.

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