
Tra l’avanguardia e il consumo
di Angela Vettese
Non solo mercanti in fiera per la «37ª Art Basel». Il gioco unisce tutti gli attori del sistema, in un momento in cui il mercato dell’arte contemporanea è al suo massimo storico. Se le cifre si fanno alle aste di Londra e New York, il trend lo segna Basilea, il solo incontro internazionale che abbia saputo sbarcare e sbancare anche negli Usa, a Miami. Gli obiettivi di chi si accalca nella fiera più importante del mondo, tra una vip card e un invito first choiche, sono molteplici e solo in parte legati ai soldi: fare accordi nella lounge dell’UBS prima ancora che affari negli stand; vedere quali saranno i 22 artisti emergenti della sezione «Statement», che compie il primo decennio e da quest’anno si sposta vicino alla sezione «Unlimited»; guardare, appunto ad «Unlimited», ospitata in una nuovo contenitore che accoglie opere di dimensione museale, quali sono gli artisti emersi; farsi un giro di video al festival «Art Film», nato nel 1999 e curato da Benjamin Weil; passeggiare tra le 270 gallerie provenienti da 30 Paesi e con circa 2.000 artisti. Ma anche ascoltare i forum presieduti da curatori-star come Robert Storr e Hans-Ulrich Obrist, con le migliori voci del momento che dibattono attorno ai criteri con cui si costruisce una mostra: non se ne parla a «Documenta» o alle «Biennali», ma qui. Il paradosso arriva fino al punto che i curatori di «Manifesta 6», la mostra "anticommerciale" appena cancellata dalle autorità di Cipro, hanno scelto questo contesto "mercantile" per il loro primo lamento ufficiale. Oggi le fiere contano più delle mostre anche come luogo per far notizia.
Chi lo avrebbe mai detto quando, nel 1967, diciotto gallerie d’avanguardia si inventarono a Colonia la prima fiera del genere: niente anticaglie e solo l’avanguardia. Fu una vera scommessa, pensare che qualcuno avrebbe lottato per contendersi gli oggetti sporchicci di Joseph Beuys o i monocromi candidi di Robert Ryman. Ma allora, come ora, si era in un momento di boom del contemporaneo e ci fu addirittura posto per una controfiera. Nata dapprima nella stessa città e poi spostatasi a Duesseldorf, l’alternativa ad «Art Cologne» fu concepita con maglie più larghe e più spazio per il gusto del grande pubblico.
Poiché tra i litiganti il terzo gode, l’idea venne annusata dal gallerista basilese Ernst Beyeler – lo stesso che ha inventato da qualche anno una delle più belle fondazioni private del mondo – e messa in atto da due talenti del marketing culturale, Trudy Bruckner e Balz Hilt. Fu grazie a loro e a una sequela di manager agguerriti, tra cui la mitica Anita Kaegy e l’attuale deus ex machina Samuel Keller, che «Art Basel» è riuscita a disseminare il mondo di cloni che, invece di farle ombra, le hanno dato prestigio: tutte le fiere d’arte contemporanea nate da allora vogliono "fare come Basilea", anzi meglio, salvo poi sopravvivere solo grazie alle sovvenzioni statali («Arco» a Madrid); morire rapidamente («Art Frankfurt» nei primi anni Novanta); proporsi come aggressive ma crescere soprattutto per la metropoli che si ritrovano alle spalle («Frieze» a Londra).
Costante tra le rivali è l’altalena tra selezione e consumo, cioè tra la fiera concepita come un luogo per trovarci la crema e quella nata per attirare di tutto. La prima fa tendenza, la seconda fa soldi. Nessuna delle due però è vincente e solo «Art Basel», appunto, ha trovato la ricetta speciale che unisce il senso dell’esclusività a corridoi pieni di carrozzine con genitori che addentano wurstel.
Ma perché, dati numerici ed emotivi alla mano, la fiera vince sulla mostra? L’industria della cultura ha del tutto fagocitato la sperimentazione e l’idealismo? In realtà questi aspetti si alleano sotto uno stesso ombrello, quello dell’arte contemporanea come simbolo eminente del presente e del coraggio di affrontarlo. Di sceglierlo. Di scommetterci. Sia da un punto di vista economico sia nell’ambito delle idee. Va ricordato per esempio che, ora, non basta avere i soldi per acquistare artisti portatori di nuove idee. Occorre anche essere conosciuti come collezionisti coltivati, meglio ancora se curatori di museo: le gallerie hanno infatti imparato a curare in modo particolare il posizionamento dei loro artisti e sanno che un quadro non va "venduto" e basta, ma "collocato" nelle collezioni che fanno opinione.
Col loro modo antielegante ma franco, le fiere mettono a nudo il lato speculativo ma anche quello inventivo del mondo artistico; così, nella loro brutale sincerità, fanno sentire i loro visitatori come soggetti che costruiscono o almeno assistono alla nascita della storia dell’arte. Anche se tutti sanno che l’anno dopo si mescoleranno le carte, pronti a una nuova partita; e tutti hanno la confortante certezza, ancora estranea alle mostre e ai musei, che nessuno dei valori stabiliti da questo gioco resterà vero per sempre.