Rassegna stampa

Roth, «mago» della Fiera: dai ricordi del dopoguerra la mia voglia di ricostruire

Deve il cognome a una piccola città della Boemia, ma è milanese da almeno quattro generazioni. Luigi Roth, presidente della Fondazione Fiera di Milano dal gennaio 2001, è l’artefice dell’operazione del Nuovo Polo che sta sorgendo a Rho-Pero e del Polo Urbano che nascerà dalla riqualificazione dello storico quartiere fieristico milanese. Un’impresa a ragione definita ciclopica, condotta con una determinazione e una tempistica che hanno fatto riconquistare all’Italia una credibilità internazionale. «Me le ricordo ancora le facce degli investitori stranieri quando presentavamo il progetto con i tempi di realizzazione! – racconta Roth -. Lo scetticismo era totale. E del resto tre anni fa, quando abbiamo cominciato, non avevo ancora il terreno su cui trasferire la Fiera. Come ho fatto? Ripetendomi ogni mattina un vecchio proverbio milanese: “È meglio diventare rossi prima, che smorti dopo”. Ovvero, meglio osare a costo di arrossire che rimpiangere le occasioni non sfruttate. Il nodo da sciogliere subito era l’acquisto dell’area della raffineria di Rho. Non avevamo una lira, ma per fortuna le banche hanno creduto in noi. La bonifica, che l’Eni affidò alla Foster Wheeler, ha consentito il recupero di 130 ettari di terra, quelli da cui arrivava a Milano l’inconfondibile odore di petrolio». Le tappe successive sono ormai storia. Nell’aprile del prossimo anno Milano inaugurerà il Polo fieristico di Rho-Pero, il più importante del mondo, e alla metà del 2006 l’area storica, a esclusione del Portello, verrà consegnata alla cordata CityLife che si è impegnata a realizzare, entro otto anni, un nuovo centro cittadino con le tre torri. Dopo una gara internazionale che ha focalizzato su Milano l’attenzione dei migliori cervelli. «Tutto il percorso – sottolinea Roth – è stato fatto con l’ascolto del territorio, cioè lavorando a stretto contatto con le istituzioni, Comune, Provincia, Regione, che sono le proiezioni dei cittadini». «Se non c’è la condivisione del territorio – aggiunge – non si va da nessuna parte. Arrivo da aziende metalmeccaniche come la Breda e l’Ansaldo. L’ho sperimentato sul campo. Da sempre sono un sostenitore dell’economia mista, penso sia una grande chance per l’Italia. Purché si operi nel segno della sussidiarietà e non in modo vicario. Il che, detto in breve, significa che io, privato, faccio la mia parte e tu, istituzione, la tua. Non sono io che mi sostituisco a te, operiamo fianco a fianco nel rispetto delle reciproche competenze. Un progetto di sviluppo del Paese passa sempre attraverso un programma etico, con una compensazione tra profitti e interessi collettivi».

Che non siano convinzioni dell’ultimora lo prova la ricca produzione saggistica di Roth che, fin dall’inizio degli anni Novanta, scriveva sui rapporti tra bene comune e individualismo e teorizzava «un capitalismo per l’uomo». «L’acqua che bevi da bambino – osserva – te la ricordi per sempre». La sua è stata quella dell’oratorio dell’Incoronata, la chiesa del quartiere milanese dove è nato e dove ancora abita. «Un luogo a cui devo molto – dice -. Mi ha insegnato a lavorare con gioia, a cercare di restituire il bene che ricevo. E mi ha protetto in tempi non facili con un cognome come il mio». Il quartiere Garibaldi lo ricorda devastato dalle bombe «che allora non erano intelligenti come non credo lo siano oggi». Per la Milano del dopoguerra Roth ha un aggettivo: desolante. «Sono nato in viale Pasubio. Davanti a casa, da piccolo, vedevo tra le macerie baracche verdastre adibite a mense popolari. Di fianco c’era la Pesa pubblica, dove si fermavano i carri tirati dai cavalli, poi i primi camion». Al 9 di corso Como c’era la fabbrica del ghiaccio. Oggi quella è una strada alla moda, come Brera, allora piuttosto malfamata. «Dalla distruzione nasce un’esaltante voglia di ricostruire. Questa sensazione mi è rimasta dentro. Davanti al progetto del nuovo Polo Urbano, dove c’è anche un corso d’acqua che finisce nell’Olona (e l’acqua è un elemento tradizionale nell’urbanistica milanese), mi sono quasi commosso. Io, duro boiardo di Stato, come mi definiscono. E, immodestamente, sono felice di aver contribuito a lasciare un segno di rinnovamento nella mappa di questa Milano di cui amo anche i sassi».

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