
Porte aperte sulla nuova Milano
Da qualche decennio ormai anche in Italia la riqualificazione delle cosiddette “aree dismesse” è diventata una condizione strutturale della pratica urbanistica, adeguandosi all’estensione di un fenomeno che all’estero è cominciato in sordina già negli anni 70 con la riconversione per usi civili di edifici o siti un tempo occupati da fabbriche. All’inizio furono i loft di Soho a Manhattan, che trasformarono in residenze d’artista i vasti spazi di derelitti luoghi di produzione; poi, aree più vaste, come i mercati all’ingrosso di Boston, le aree portuali di Londra o Les Halles parigine, al cui posto Piano e Rogers installarono la “macchina” post-moderna del Beaubourg, convertendo un luogo di contrattazioni commerciali in un sofisticato laboratorio di scambi culturali. Se il Beaubourg è diventato un’icona di quegli anni 70, nessun altro esempio meglio del Guggenheim di Bilbao può aspirare al ruolo di icona della deinstrustrializzazione e del decollo turistico-culturale del nuovo millennio.
Le fabbriche trasformate. Sfrattato il mondo industriale, pezzo dopo pezzo assistiamo alla costruzione di una nuova idea di città, dove il lavoro stesso sembra aver perso le sue bibliche connotazioni di fatica e di sudore e il tetro paesaggio di scorie e di residui contaminati cede il passo a un’Arcadia tecnologica che, come nella vallata della Ruhr in Germania, si estende per i 70 chilometri dell’Emscher Landschaftpark, con i suoi giardini, musei, centri di intrattenimento, installazioni artistiche e shopping mall.
Quarant’anni dopo quelle prime esperienze, la lista delle trasformazioni rischia di diventare infinita, coinvolgendo nella categoria del “dismesso” non solo le tradizionali fabbriche pesanti, ma anche tutte quelle infrastrutture di supporto alla commercializzazione come i “waterfronts” e le aree portuali, dai Docklands di Londra al fronte del porto di Barcellona olimpica, di Rotterdam e di Amburgo, di Genova e Trieste.
Conseguenza di un declino della pesante armatura produttiva d’inizio secolo, l’attuale sistema dell’età postindustriale ha rivoluzionato dunque i tradizionali modi di usare il territorio, usando la delocalizzazione e la concentrazione come strumenti per una contrazione degli spazi destinati al lavoro.
Esaurita la loro funzione per le profonde ristrutturazioni del ciclo produttivo, fabbriche e recinti industriali che avevano disegnato all’inizio del secolo scorso la “corona di ferro” attorno alla città storica, hanno perso la loro centralità, anche simbolica, nella società postmoderna, mentre la loro “ritirata” ha liberato preziose aree a nuovi usi e a modifiche strategiche dei suoli.
Per effetto di una “quarta” rivoluzione industriale si è così riproposto anche in Italia un fenomeno che ricorda la dismissione e l’incameramento dei beni ecclesiastici in età napoleonica, che liberò a inedite – anche se troppo spesso improprie – destinazioni una grande quantità di edifici di culto e monasteri.
Processi da governare. Come tutti gli eventi radicali, anche la deindustrializzazione non può certo dirsi indolore, sia per l’effetto sociale del cambiamento del mercato del lavoro che per la dipendenza del sistema produttivo nazionale dal liberismo selvaggio del mercato globale. Essa richiede quindi di essere governata, inquadrando ad esempio i processi di dismissione in una politica di pianificazione dei nuovi bisogni urbani, cui in effetti può offrire grandi e insperate risorse. Così è, infatti, quando i progetti di riabilitazione sono finalizzati al superamento delle condizioni di degrado dei cortili “sporchi” della fabbrica e alla creazione di forti poli d’attrazione suscettibili – come nel caso della Bicocca di Milano – di dare credibilità alla nozione di una metropoli policentrica. Dopo l’esperimento del Lingotto di Torino, l’ex- stabilimento Pirelli è stato forse in Italia il caso di maggior successo di un concorso di idee finalizzato alla riqualificazione di un settore tanto cospicuo e strategico della città futura, anche se non possono essere trascurati segnali importanti come l’ex-manifattura Tabacchi di Bologna, recuperata a sede universitaria e residenziale o l’ex zuccherificio Eridania di Parma, trasformato da Piano in auditorium.
I cantieri di Milano. Purtroppo però il caso Bicocca è anche rimasto sinora abbastanza isolato, a dispetto del vertiginoso senso di mutamento trasmesso dai tanti cantieri sorti a Milano, per effetto dei Programmi integrati di intervento e dei Programmi di riqualificazione urbana, in tutta la cintura della periferia storica attorno ai bastioni.
A parte le promesse della futura Montecity a Rogoredo con la sua importante mobilitazione di architetti di talento, dai tanti vuoti lasciati disponibili dalla risacca industriale non sembra emergere ancora un paesaggio urbano all’altezza della tradizione innovatrice della capitale moderna e forte.
E c’è il pericolo che una ingiustificata miopia non sia capace di cogliere un’occasione storica e irripetibile. In fondo a Milano è dal piano Beruto di fine Ottocento che non si registra un fervore edilizio tanto diffuso: ma, mentre dietro quello si intuiva la volontà di plasmare il volto borghese della “capitale morale”, dietro i cantieri di oggi si stenta a riconoscere una analoga capacità di ritrarre la realtà sociale della metropoli multietnica contemporanea.
L’area della Fiera. Va registrata positivamente in tale contesto la decisione con cui l’ente Fiera ha avviato la procedura della propria dismissione che, con il prossimo trasferimento della sede “pesante” nel polo di Rho-Pero, immetterà nell’ex quadrilatero espositivo una parte rilevante dei suoi 260mila mq. Il carattere di “eccellenza” che il bando di concorso ha voluto espressamente sottolineare come caratteristica di quella che sarà la nuova “porta urbana” di Milano provenendo da Torino, è sostenuto dalle procedure del concorso che assegnano alla “qualità” delle proposte un coefficiente determinante rispetto al solo dato economico del progetto immobiliare. Se questa lungimiranza verrà esercitata con rigore dalla commissione giudicatrice, non ci sarà da rimpiangere la storica struttura della vecchia Fiera: qui, quando negli anni 30 si avviò per la prima volta l’idea di un trasferimento della “città delle merci” in un luogo urbanisticamente più attrezzato, un gruppo di architetti razionalisti sognò di insediare un quartiere modello, significativamente intitolato “Milano verde”.
I tempi non erano maturi e quel verde rimase sulla carta: nella nuova prospettiva aperta dalla competizione internazionale voluta da Luigi Roth, una Milano verde adeguata al futuro riprende quota e con essa torna a volare alta la speranza di quella parte di città che non si rassegna a un ruolo provinciale e di deriva.
L’evoluzione delle strutture
Nasce nell’aprile del 1920 la Fiera di Milano, quando ai Bastioni di Porta Venezia viene organizzata la prima rassegna campionaria con 1.200 espositori di cui 256 esteri.
Nel 1923 la Fiera si trasferisce nella sede di Piazza delle Armi. Viene costruita la Palazzina degli Affari (nella foto a sinistra dell’Archivio storico della Fondazione Fiera Milano) progettata da Paul Vietti Violi
Distrutto dai bombardamenti, il quartiere viene ricostruito nel dopoguerra. Viene realizzato il grande palazzo delle Nazioni (Palazzo Cisi)
Viene completato nel ’97 l’ampliamento del polo fieristico con tre nuovi padiglioni al Portello (ex area Alfa Romeo).
Nel 2001 viene sottoscritto il preliminare di acquisto dell’area Agip Petroli sulla quale realizzare il Nuovo Polo e si avvia la gara internazionale
Nel 2002 vengono assegnati i lavori, firmati da M. Fuksas
L’anno scorso è stato pubblicato il bando per il concorso di riqualificazione dell’area del Polo urbano
I numeri del concorso
L’ESTENSIONE
440mila mq
Sono le dimensioni del polo fieristico di Milano. Di questi 185mila rimarranno alla Fiera, 255mila venduti per concorso.
LE AZIENDE
40
Il numero di imprese che partecipano al concorso per la riqualificazione dell’area che sarà venduta e restituita alla città.
IL VALORE
1 miliardo Euro
L’operazione è stimata in un miliardo. La gara parte da 310 milioni, ma il criterio economico sarà rispetto alla qualità del progetto.
LE CORDATE
8
Sono i raggruppamenti di imprese preselezionate. Ora hanno tempo fino al 31 marzo per presentare
i progetti.