
Polacchi salvati dalla memoria
In una Polonia sempre più moderna e apparentemente benestante, e allo stesso tempo percorsa da, minoritari ma non meno inquietanti, fermenti nazionalistici e xenofobi, è venuto a mancare, proprio alla vigilia dell’annuale Fiera del libro di Varsavia tenutasi recentemente, dove era prevista la presentazione del suo nuovo volume (Pantareja), uno dei vecchi intellettuali più rappresentativi di una generazione che ha sempre lottato con coraggio per la propria e altrui libertà, per la tolleranza e l’appartenenza del proprio Paese all’Europa. Jerzy Ficowski (nato nel 1924 a Varsavia) è stato poeta, saggista, traduttore e studioso della cultura degli zingari. Ha combattuto nella resistenza e poi, alla metà degli anni Settanta, fu uno dei primi ad aderire al movimento del dissenso. Ma il "capolavoro" della sua vita è stato l’aver salvato dall’oblio, e restituito alla letteratura mondiale, la figura e le opere dello scrittore Bruno Schulz, il mitico autore de Le botteghe color cannella (Einaudi 2001), ammazzato dai nazisti nel 1942. Il volume da lui curato Lettere perdute e frammenti (1975; Feltrinelli 1980) è il frutto di una paziente ricerca, durata un trentennio, di lettere, testimonianze, articoli e disegni di quello che Ficowski, nel volume Regiony wielkiej herezji (Le regioni della grande eresia, 1967), considerava con rispetto un po’ il suo padre spirituale.
Un sopravvissuto all’annientamento del mondo e della cultura di Schulz è Kurt I. Lewin, autore di uno dei volumi più interessanti presentati alla Fiera del libro: Przezylem (Sono sopravvissuto, Zeszyty Literackie, Varsavia 2006). Per l’occasione, Lewin è venuto dagli Stati Uniti, dove risiede dal 1955, per parlare con riluttanza delle sue memorie, scritte a lapis in un polacco distaccato e preciso, agli inizi del 1946, in un campo per rifugiati al Lido di Roma e poi nel porto di La Spezia, nei due mesi di attesa che le autorità britanniche dessero il permesso, agli ebrei dell’Europa centrale sopravvissuti, di salpare per la Palestina. Lewin ricorda, proprio nelle ultime pagine, che gli italiani solidarizzarono con quella nave di disperati, passando loro di nascosto acqua e cibo. Il libro fu pubblicato, in traduzione ebraica, in Israele nel 1947 e fino a oggi sconosciuto al pubblico polacco. L’autore (nato nel 1925), era il figlio di Jecheskiel Lewin, uno dei più influenti rabbini di Leopoli. Il libro è la descrizione disperata del massacro sistematico degli ebrei di Leopoli, operato dai nazisti appena conquistata la città (dove perì anche il padre dell’autore) e dell’annientamento dei superstiti nel campo di Janowski (dove fu ammazzata la madre). Kurt I. Lewin si salvò grazie al coraggio e alla generosità dei due fratelli Szeptyc: Andrzej (1865 -1944), famoso metropolita greco-ortodosso della città, che aveva abbandonato la nazionalità polacca per farsi portavoce del popolo ucraino, autore, nel 1942, di una delle prime lettere a Pio XII di denuncia delle persecuzioni degli ebrei, e Klemens che lo ospitò nel loro monastero, facendolo passare per un seminarista, e che, dopo la guerra, fu assassinato nelle prigioni sovietiche (e beatificato da Papa Wojtyla). La descrizione di quei fatti presenta, con un’efficacia che solo poche altre testimonianze hanno, un inferno popolato di persone (ucraini, polacchi, russi) che un tempo convivevano non senza tensioni etniche e che aizzate dalla violenza dei tedeschi, danno prima la caccia comune agli ebrei, per poi scannarsi tra di loro.
Un altro "ritorno" è stato quello dello scrittore e poeta Marian Pankowski (1919), residente dal 1945 a Bruxelles, dove ha insegnato, fino alla pensione, Letterature slave all’Università Libera. Anche lui legato ai gruppi della resistenza (Ak), fu arrestato nel 1942 e fino al termine della guerra attraversò tutte le stazioni dell’Inferno: prima Auschwitz, poi a Gross-Rosen e infine Bergen-Belsen, come racconta nel suo libro Z Auszwicu do Belsen (Da Auschwitz a Belsen, 2000), con una sorta di amaro pudore: «Abbiamo forse diritto di chiedere a una ragazza violentata i particolari della violenza? Bisogna fermarsi dinanzi al dolore che ritornerebbe vivo nel racconto». Tutte le sue opere sono tradotte in francese, alcune anche in tedesco e in olandese. Pankowski scrive in una lingua difficile, a volte gergale, spesso volgare. Il sesso è la sua ossessione (e, sotto questo aspetto, è uno scrittore polacco davvero singolare e infatti i critici ne parlano con imbarazzo). Il suo capolavoro, Rudolf, narra dell’incontro, nella capitale belga, tra un vecchio tedesco, ex ufficiale della Wehrmacht, omosessuale, e un polacco reduce da Auschwitz…
La realtà non è affatto rappresentata nella letteratura polacca di oggi e quindi si può permettere di far zampillare indisturbata qualche spruzzo sporco e maleodorante. Se si eccettua qualche caso, clamoroso ma letterariamente poco convincente, come quello di Artur Baniewski che in Dimanski contro la Repubblica (Wab, Varsavia) racconta di un giovane soldato che dichiara, schifato, guerra alla sua nazione minacciando di ucciderne i politici più in vista, i giovani scrittori continuano (purtroppo senza grandi risultati) a sperimentare il carnevale della libertà (ormai soprattutto sessuale). E allora, trionfa l’ironia un po’ kitsch di un Michal Witkowski (che verrà pubblicato in tedesco da Suhrkamp) che con Lubiewo, termine intraducibile che rimanda alla parola russa "amore", racconta piccole storie erotiche vissute da due ormai attempati travestiti che vivevano vendendosi ai soldati della guarnigione sovietica di Legnica.
Sempre nei giorni della Fiera, ma nella sede del principale quotidiano polacco, «Gazeta Wyborcia» (Gazzetta Elettorale), fondato dallo storico-dissidente Adam Michnik, è stato premiato l’ex consigliere di Jimmy Carter, l’americano di origine polacca Zbigniew Brzezinski, studioso del totalitarismo sovietico e artefice della politica statunitense di appoggio ai movimenti per i diritti civili nel l’Est Europa, e soprattutto in Polonia. Nel suo discorso di ringraziamento, il professor Brzezinski si è soffermato sull’importanza dell’Europa per la Polonia (proprio mentre le forze politiche della coalizione governativa guidate da Lepper e Giertych insistono sulla necessità di «pensare al bene dei polacchi e non a quello dell’Europa»), e soprattutto sulle buone prelazioni polacco-tedesche sostenendo che esse sono più necessarie ai polacchi che ai loro vicini occidentali e li ha invitati a convincere i tedeschi delle proprie buone ragioni e a non offenderli collocandosi in una posizione di superiorità morale.
Il bellissimo palazzo (ul. Czerska 8/10, Varsavia) di cristallo, cemento e legno della società Agora, che possiede, tra l’altro, «Gazeta Wyborcia», è stato giudicato, da una giuria del mensile «Architektura», uno dei venti più significativi edifici, costruiti dopo il 1989. Nella mostra, intitolata «Le icone dell’architettura polacca», dentro il Castello Ujazdowski che domina la Vistola, si possono vedere i progetti, le piante e le foto di questi segni tangibili di un rinnovamento del panorama di alcune città polacche, come: il Centro dell’Arte e della Tecnica giapponese a Cracovia (progetto: Arata Izozaki); la piccola chiesa greco-ortodossa di Bialy Bòr, che sembra un quadro di Mondrian in mezzo alla neve (Progetto: il pittore Jerzy Nowosielski e Bogdan Kotarba); il suggestivo cuneo di vetro, cemento e reti metalliche del palazzo per uffici Rodan nella periferia sud di Varsavia (progetto: Magdalena Staniszkis). Ma l’edificio più innovativo è senz’altro una piccola villetta nella regione della Slesia (progettato dai coniugi Robert e Marlena Konieczny) che ricorda la Ville Savoy di Le Corbusier, "sfigurata" da facciate che si attorcigliano come una spirale di piani inclinati ruotanti su un asse di pareti-finestre. Il progetto, invece, impossibile da dimenticare è senz’altro il memoriale (DDJM Biuro Architektoniczne) nella spianata dove sorgeva il campo di sterminio di Belzec, fatto di corridoi scavati a cielo aperto nel terreno, dal quale emergono, come ferite slabbrate, contorti cavi di armature del cemento.