Rassegna stampa

Le lacrime per Caruso al Metropolitan

Il sogno impossibile di ascoltare dal vivo la voce di Enrico Caruso mi ha fatto di tanto in tanto compagnia sin da quando, bambino, andavo nell’appartamento di fianco a dar la buonanotte a nonno Gin. Era discretamente sordo, il padre di mio padre. Per questo il volume delle voci di Caruso, di Gigli, di Pertile che esplodevano dal radiogrammofono un po’ mi affascinava e un po’ mi travolgeva, sedimentando una melomania che si sarebbe poi fatta largo in età matura.
Una trentina d’anni più tardi, quando ormai da tempo coltivavo la passione alternando la Scala a San Siro, uscì Fizcarraldo. La fantastica storia di un melomane ossessionato da Caruso che risale su una vecchia nave il Rio delle Amazzoni, stregando con la voce del tenore napoletano indigeni e coccodrilli. Era l’82, e quella volta il sogno impossibile fu di accompagnare al cinema il nonno che giusto quell’anno sarebbe diventato centenario.
Sinché a fine marzo ’91, in pieno mito pavarottiano al di qua ma soprattutto al di là dell’Atlantico, un amico non buttò là che Big Luciano debuttava Otello, sia pure in forma di concerto, e l’impresa (artistica ma anche atletica, a 56 anni) andava seguita e sostenuta dal vivo. Fu così che l’8 aprile mi ritrovai a Chicago, ad ascoltare con Nucci e la Te Kanawa un Pavarotti emozionato, raffreddato e ingolato al punto da saltare a piè pari, a metà del second’atto, l’acuto dell’«È questo il fin»: senza peraltro che nessuno in sala, a cominciare dal maestro Solti, facesse una piega.
C’è voluta insomma questa trovata del Sole per mettere a fuoco il giorno che sin dall’infanzia avrei voluto vivere. Il 23 novembre del 1903, la sera del debutto di Enrico Caruso al Metropolitan di New York. Non solo per assistere a una rappresentazione che fece epoca. Ma già pregustando anche quello che sarebbe accaduto dopo: quando, comunque fosse andata, sarebbero arrivati i napoletani di Little Italy. E a notte alta, come da lì in poi per il resto della carriera, Caruso avrebbe ricominciato a cantare per loro, con quell’inimitabile lacrima nella voce che avrebbe reso ancor più struggente le note di Torna a Surriento o Santa Lucia luntana.
Metropolitan dunque, interno notte. La prima di 607 recite in quel teatro, un repertorio di 40 opere. Caruso è il Duca di Mantova nel Rigoletto. Intona il primo recitativo, «Della mia bella incognita borghese», poche battute, ed è come se dal palco partisse una scossa elettrica. Da quale galassia arriva una voce così? Un minuto, e inizia la prima grande aria, «Questa o quella per me pari sono». Quando Caruso la chiude, cesellando l’ultima strofa, «Se mi punge, una qualche beltà», il Met in ebollizione lo ha già adottato. Il duetto con Gilda, «Il sol dell’anima», il «Parmi veder le lagrime» come tappe di avvicinamento al delirio dell’ultimo atto. «La donna è mobile», e poi il «Bella figlia dell’amore» letteralmente incendiano la sala.
Ha scritto Rodolfo Celletti, il Gianni Brera dei melomani: «Il canto di Caruso, di estrema spontaneità e naturalezza, affascinava per la compattezza del suono, per l’impasto vellutato, per l’accento incisivo e scandito, per le accensioni frementi e appassionate». Qualcuno tra i presenti in teatro aveva già avuto un’anteprima, perché sin dall’anno precedente l’antesignano Caruso aveva cominciato a incidere i primi dischi. Ma con le tecniche di allora si cantava nell’imbuto, e solo le più moderne ri-masterizzazioni hanno reso parzialmente giustizia alla sua fenomenale vocalità. Sicché, quel 23 novembre di 106 anni fa, la sensazione prevalente e condivisa fu quella dello sbalordimento: testimoniato d’altra parte dalle cronache come dalle recensioni.
Smessi gli abiti di scena, il tenore andò avanti a stringere mani e a firmare autografi e programmi di sala per un buon paio d’ore. Fumando a man salva (nei periodi di tensione arrivava a 40 sigarette al giorno) e cercando di limitare i danni con strane mescolanze che andavano da sorsi d’acqua salata, ad altri di whisky, a spicchi di mela. Quando anche gli ultimi ammiratori sgombrarono il camerino, e il dilemma era tra la cena ufficiale, con il cast al gran completo, o un boccone in albergo per stemperare lo stress, già attraversando l’atrio del teatro Caruso percepì che dall’esterno gli andavano prospettando una terza via. I resoconti dell’epoca fanno un po’ di confusione tra centinaia e migliaia. Quel che è certo, è che erano napoletani. E finiti i battimani e le ovazioni, quando uno di loro disse «Maestro, se ci faceste l’onore…», Caruso rispose che lì di maestri non ce n’erano, e che l’onore lo facevano a lui.
Non so come. Ma non mi sarei fatto tagliar fuori. Li avrei seguiti con discrezione, come ai primi tempi con paròn Rocco, come a Madrid nella notte mondiale dell’82, ma mai e poi mai mi sarei perso lo spogliatoio di una partita così memorabile. Nacque da quella nottata tra guaglioni e pazzarielli, tra povera gente finalmente fiera di aver trovato il proprio ambasciatore, più ancora che dallo straordinario Rigoletto di poche ore prima, il mito americano di Caruso. La montagna di quattrini guadagnati nei 18 anni successivi tra Met e dischi incisi a Camden, nel New Jersey, l’avrebbe grosso modo messa insieme ovunque. Ma in nessun’altra parte del mondo si sarebbe sentito a casa propria come tra quei conterranei emigrati che gli scaldavano il cuore. E a cui poco alla volta prese a destinare, sotto il vincolo del più assoluto segreto, fette sempre più cospicue dei suoi guadagni.
Anche perché per lui, napoletano verace, quella piccola Napoli made in New York non solo rappresentava ma, meglio ancora, sostituiva l’originale. L’aveva giurato, due anni prima: per quanto l’amasse, nella sua città non avrebbe cantato mai più. Ma qui siamo già all’indomani del giorno che avrei voluto vivere, all’appendice del sogno. All’intervista che avrei provato a chiedere a Caruso tra una romanza e l’altra e lui, saputo che il militare l’ho fatto all’Arenaccia, non mi avrebbe negato. Sarei partito dai debutti. Senza bisogno di ricordargli che non sempre era andata come al Metropolitan.
Seduto al bar dell’albergo in cui era sceso, il Knickerbocker, aspirando un’americana senza filtro da un lungo bocchino e tracciando su un grande notes una caricatura dopo l’altra, specialità in cui eccelleva, avrebbe sorvolato, immagino, sul più lontano e difficile, quello da diciottesimo figlio di un fabbro male in arnese. Avrebbe raccontato degli esordi canori nelle chiese intorno ai dieci anni, del contemporaneo apprendistato in un’officina meccanica, delle prime serate intorno ai quindici nelle rotonde sul mare dell’epoca. Per poi, dopo i primi studi di canto e il servizio militare, arrivare al debutto assoluto a 21 anni, al teatro Nuovo di Napoli, in un’opera minore, l’Amico Francesco di Morelli. Buono, non esaltante. Seguito da esperienze di difficoltà via via crescente in piccoli teatri di provincia, con il Faust, la Cavalleria, il Rigoletto. Sino ad illudersi di aver già tagliato il traguardo con il grande successo in Fedora al Lirico di Milano, che gli spianò la strada alle prime grandi trasferte, San Pietroburgo, Buenos Aires, Londra.
A quel punto, sfogliando i giornali che a caratteri di scatola lo consacravano, sarebbe stato più facile tornare alle due mazzate. Recenti, inattese, crudeli. Ma forse anche formative, che ne dice, maestro? La prima al debutto alla Scala in Bohème, con Toscanini sul podio. Febbricitante, teso, ma soprattutto furibondo con quel direttore dispotico che aveva preteso il canto a voce piena durante tutte le prove, non solo alla generale, finendo per stancargli la voce. Non un fiasco, ma una performance che aveva deluso le attese. Il tempo di una grande rivincita nell’Elisir d’amore, sempre alla Scala, sempre con Toscanini che trovò la frase per farsi perdonare («Per Dio, questo giovane tenore canta come un angelo»), ed ecco invece lo stesso Elisir accolto con grande freddezza e qualche fischio di troppo proprio dove Caruso avrebbe dato l’anima per trionfare. Al San Carlo, nella sua città, dove il pubblico adorava il vecchio tenore-maison, Fernando De Lucia, che sarebbe come se al San Paolo avessero fischiato Maradona per rispetto a Totonno Juliano. Ma davvero lei non canterà mai più nella sua Napoli, avrei chiesto quel 24 novembre 1903 ad Enrico Caruso?
Nel tempo gliela fecero in tanti, quella domanda. La risposta fu sempre la stessa. Gli chiesero anche, da lì a qualche anno, che cosa pensasse dello sbarco di Toscanini al Metropolitan, come direttore artistico. Eravamo ormai nel 1908, e lui che da cinque anni, dalla sera del Rigoletto era del Met il re indiscusso si tenne sull’evasivo: ma la sua prima reazione era stata di rompere il contratto, e ci volle del bello, del buono, e ovviamente del cospicuo, nel senso dei quattrini, per costringerlo alla convivenza con quell’altro mostro sacro della lirica. Alla fine, per fortuna del Met e della musica, fu il linguaggio del talento superiore ad averla vinta sulla focosità dei caratteri.
Caruso cantò da padrone di casa al Metropolitan sino al 24 dicembre del 1920, pochi mesi prima di morire. È sepolto a Napoli, alla Doganella, a poca distanza dalla tomba di Totò. Una visita in punta di piedi, preceduta e seguita dal riascolto della sua voce inimitabile, è un giorno che si può ancora vivere.
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SUCCESSI E DOLORI DI UNA VITA

Napoli mon amour

Enrico Caruso nacque a Napoli il 25 febbraio 1873, 18° figlio di un fabbro, morì nella sua città natale il 2 agosto 1921. Tra il 1902 e il 1920 incise 250 facciate a 78 giri, che gli fruttarono circa 500mila lire dell’epoca. Considerato la più bella voce di tenore di sempre, ha cantato tutto il grande repertorio, da Verdi a Puccini, Donizetti, Bellini, i veristi, fino alle romanze da camera, oltre ovviamente al repertorio della canzone napoletana.
Un timbro unico
Nel 1909 fu operato alla gola per una laringite ipertrofica nodulare. Da allora la sua voce acquisì un timbro ancora più brunito, con un ampliamento ulteriore dei suoni centrali assolutamente eccezionali per un tenore. Al punto che in una recita di Bohème a Filadelfia, nel gennaio del 1916, cantò, oltre alla sua parte di tenore, anche la romanza del basso («Vecchia zimarra») colpito da un improvviso abbassamento di voce. La sua ultima performance fu l’Ebrea di Halevy al Metropolitan il 24 dicembre 1920.
L’amore e la malattia
Gravemente ammalato, subì un’operazione al polmone sinistro mentre era in tour. Dopo una lieve ripresa ebbe una ricaduta e non poté finire il viaggio verso Roma per subire un nuovo intervento chirurgico: il male lo fermò in una delle stanze dell’albergo Vesuvio a Napoli, dove morì a soli 48 anni. Ebbe due figli dalla prima moglie, il soprano Ada Giachetti conosciuta a Livorno in una Traviata del 1897, e una da Dorothy Benjamin, sposata a New York nel 1918. Ada fu il suo grande amore ma anche il suo grande dolore: lo lascerà dopo 11 anni di matrimonio per fuggire con l’autista, con il quale cercherà anche di estorcergli denaro. La vicenda finirà in tribunale, con la Giacchetti condannata a tre mesi di reclusione e a 100 lire di multa.
Il Metropolitan Opera
Il Metropolitan Opera, attualmente situato al Lincoln Center a New York, venne fondato nell’aprile del 1880. Il primo Metropolitan Opera House aprì il 22 ottobre 1883 a Broadway, tra la 39ª e la 40ª Strada. L’edificio originale (nella foto in basso) venne distrutto da un incendio il 27 agosto 1892. Dopo ampi rifacimenti continuò a essere utilizzato fino al 1966, quando fu spostato nella sua attuale posizione al Lincoln Center (impossibile vedere l’edificio originale dove cantò Caruso perché, non avendo ottenuto lo status di monumento, fu impietosamente abbattuto nel 1967). Il Met attuale contiene circa 4mila spettatori su vari livelli; il sipario principale è il più grande del mondo. Il palcoscenico, altamente meccanizzato, permette ogni settimana la rappresentazione di 7 spettacoli di 4 o 5 produzioni differenti. Direttore stabile è l’americano James Levine.

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