
La “mia” Fiera, da guardare e da vivere
DI MASSIMILIANO FUKSAS
La vera questione è: la Fiera di Milano è una vera Fiera o qualcos’altro? La risposta: è qualcos’altro. Si tratta del primo tentativo di materializzare le riflessioni di 20 anni sulle periferie e sulle grandi megalopoli che si costituiscono quasi senza colpa e senza volontà e ricoprono territori vastissimi, in questo caso da Torino a Trieste.
La Fiera è stata l’occasione per “misurare” e trovare la giusta dimensione in questo estesissimo hinterland in cui le città (perché di città si tratta e non più di paesi) sovrappongono i loro limiti e i loro confini, andando a rendere magmatico il territorio. Le autostrade divengono, a questo punto, delle strade urbane che assomigliano a un’arteria appena più grande di un corso cittadino. E della strada urbana hanno la velocità, 20, 40, 60 km all’ora.
Le autostrade e tutte le infrastrutture, come in un film di “science fiction”, sembrano rimpicciolirsi e divenire ruscelli, nate 40 anni fa come i grandi fiumi che dovevano supportare il miracolo economico e un’Italia in piena espansione. É in questo caos “sublime” che nasce l’idea della Fiera: 1 km e mezzo di percorso (urbano) che inizia con la stazione di una metropolitana, realizzata in tutta fretta, e si conclude con i silos dei parcheggi. Pedonale, questa grande arteria che innerva il resto, e a due velocità. La velocità di chi la percorre tranquillamente a piedi e di chi usa i due tapis roulants al centro della passerella.
Volevo che fosse un luogo aperto a chiunque a Milano, a Torino, ai quartieri e agli insediamenti vicini, alla gente di passaggio, ai più curiosi e ai turisti di architettura. Desideravo che si potesse percorrere e vedere dall’alto. Che osservassero i padiglioni in pieno allestimento, il traffico dei Tir e la miriade di persone che rendono possibile l’economia dei luoghi. Senza pagare alcun biglietto si può entrare in un bar, si può andare a prendere un caffè, si può andare in un ristorante e poi, oltre, uno showroom, le bolle delle sale riunioni, gli uffici sospesi, a sbalzo, su bacini d’acqua. E percorrere la sinuosità, la dolcezza e l’organicità “della vela” in acciaio e vetro lunga 1 km e mezzo, quanto l’asse centrale.
E di seguito. A metà del percorso, discendere verso il centro congressi, ancora senza aver pagato un centesimo o avere mostrato un badge. Osservare un vulcano di vetro e acciaio che arriva fino a toccare il suolo. E in alto, come una montagna, quella che la Fiera chiama logo e gli operai chiamano “Monte Fuksas”, e di questo ne vado narcisisticamente fiero.
Quello che volevo dire all’inizio era di superare il concetto di mall commerciale, di vedere questi spazi come interpretazione delle nuove economie. Non ho cercato il modello di città. Perché di modelli non ce n’era, non ce n’è mai stato bisogno e maggiormente oggi. La differenziazione dei percorsi, dei luoghi aperti, della visita e dell’attività in basso, alla quota del terreno, sono il diagramma esatto di quello credo possa essere una città oggi.
É intorno ai 2 milioni di mq di terreno e a 1 milione di mq di costruito che si configura la massa critica per interventi in questo nuovo contesto territoriale. Megastrutture, ma ingentilite dalle necessità e dalla cultura dell’ambiente. Le megastrutture fanno parte dell’utopia del secondo dopoguerra. Oggi credo che quest’opera le realizzi, almeno in parte. Le avanguardie sono in crisi? Ma certo che lo sono, perché costruiamo l’avanguardia in tempo reale: quando si comprime il tempo e si annulla lo spazio l’avanguardia non ha più ragione di esistere. Possiamo essere noi tutti a realizzarla quotidianamente. Siano queste le bolle sospese di Nardini o la spirale di Armani a Hong Kong o il bacino d’acqua che copre il secondo piano del Centro ricerche della Ferrari a Maranello.
Sono questi i miei progetti italiani, i progetti che hanno tentato di dimostrare che il Paese non era in declino e se declino c’era era per un mondo che non credeva all’innovazione e alla creazione. Torino (Porta Palazzo), Milano (Fiera), Maranello (Ferrari), Bassano del Grappa (Nardini) sono allineati in un territorio nel quale è possibile sperimentare ancora molto.
Ho ripetuto mille volte che abbiamo costruito le bolle di vetro sospese a Bassano con imprese e maestranze raggiungibili al massimo in un raggio di 50 km. Sunglass a Padova è stata in grado di produrre 356 stampi per la doppia curvatura dei vetri delle conchiglie e così per le parti curve degli edifici “a fagiolo” per bar e ristoranti nell’asse centrale della Fiera. Poi con una sorta di tenerezza i vetri curvi sono stati montati. E quando c’era un errore alcuni pezzi, difficilissimi, sono stati rifatti almeno 10 volte. Ma per la Fiera parlerei dell’oggetto più piccolo all’interno delle centinaia di migliaia di mq, la lampada “Lavinia” (nome di mia figlia e di Doriana), progettata da noi e realizzata da Guzzini.
Guzzini un giorno mi ha detto che imprese cinesi copiano a tempi record i suoi prodotti. Quando gli ho chiesto cosa volesse fare per ovviare al grave problema mi rispose che stava comprando l’industria che meglio realizza i falsi Guzzini. Così avrebbe potuto venderlo a prezzi concorrenziali agli stessi cinesi. Non so se Guzzini è andato avanti in questa avventura, ma è talmente straordinaria la capacità di cogliere i problemi per alcune industrie d’eccellenza italiane che se ne rimane stupiti ogni giorno.
In questo “disastro nazionale” di cui si parla ogni giorno vorrei invece raccontare di come in 26 mesi è stato possibile realizzare la nuova Fiera di Milano. Permasteelisa ha compiuto l’impresa di realizzare integralmente tutte le facciate in acciaio, in alluminio laccato arancio e in vetro della Fiera. Qui si tratta di Permasteelisa, ma alla Ferrari o Porta Palazzo c’è Focchi, altra azienda che ha realizzato le facciate in vetro della Ferrari. A Torino invece il pannello è stato costituito da listoni di vetro sovrapposti, con differente tonalità di verde, per 12 metri di altezza.
Nella Fiera non si è trattato solo di imprese italiane, ma le grandi strutture in acciaio per i due padiglioni biplanari (padiglioni che hanno due livelli sovrapposti) sono state prodotte dall’olandese Ask Romein. Alla tedesca Mero si deve l’intera copertura della vela. C’è un’Italia eccellente, c’è un Europa eccellente. Fortunatamente gli italiani hanno comprato un’impresa in crisi, la Gartner, ora parte del gruppo di Permasteelisa.
Ma ritorniamo alla grande dimensione. Che il nord non sia infrastrutturato mi sembra chiaro. E che Torino sia attualmente un “cul de sac” è evidente. Non si sa a che punto è la Lione-Torino, ferrovia importantissima da realizzare. Siamo deboli come collegamenti Ovest-Est dell’Europa in quanto rischiamo che il Tgv Parigi-Strasburgo che si collega alla rete tedesca possa bypassare l’altro collegamento da Barcellona, Marsiglia, Milano verso i Paesi dell’Est europeo.
Si sente la fragilità delle politiche italiane nei riguardi dell’Europa. E non si sa se questo fosse da considerarsi acconto del saldo del cambiamento della Costituzione italiana in “federale”, ma adesso abbiamo sia Fiumicino che Malpensa che tremano di nanismo. I collegamenti aerei dall’Italia nei Paesi a forte Pil sono ridicolmente inesistenti.
Qui tratta non di inaugurare, ma di riflettere e realizzare senza prendersi nessun merito in quanto i meriti, se ci sono, si vedranno o li vedranno i nostri figli. La Fiera di Milano inaugurata in questo modo, a tre giorni dalle elezioni regionali, è un’occasione perduta per comunicare non le speranze del Paese, ma le sue realizzazioni, le idee e la creazione. Sarebbe stato utile mostrare il lavoro di quanti, parte di una grande comunità, hanno innalzato vele per prendere il vento.
Non sarò all’inaugurazione oggi 31 marzo. Quello che si può aggiungere è che committenti, politici e purtroppo anche gli architetti un giorno scompaiono. Le opere, se buone, rimangono. E spero che quest’opera flessibile e duttile come uno strumento musicale – alla musicalità ci pensa la copertura tormentata in vetro – abbia la capacità di adattarsi ai bisogni della gente.