
La Brianza a caccia dei nuovi ricchi cinesi
DI ALDO BONOMI
Pare che se non si va in Cina, di questi tempi si è out. Per capire, mi sono accodato a un gruppo di imprenditori brianzoli, che organizzati dal Centro legno-arredo di Cantù (Clac), sono andati nella bocca del leone. Girando per fiere del mobile e per fabbriche nella Brianza cinese. Quel triangolo che va da Dongguan, la città del mobile come Cantù, Guanzhou e Shenzhen ove si sono tenute tre fiere che per dimensione e spazi sono ben oltre il nostro mitico Salone del mobile che aprirà a breve nella nuova fiera di Milano.
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Ci si arriva da Hong Kong, la città-porta che immette in una delle più forti special zone cinesi. Vi sono localizzati gli stabilimenti di 60 tra le prime 500 imprese al mondo. Le zone speciali con molta fantasia si potrebbero paragonare ai nostri distretti. Fantasia che ho usato denominando quest’area la Brianza cinese. Le cose stanno altrimenti. In primis è una questione di numeri. Sono numeri sempre non certi, gli abitanti del triangolo oscillano dai 25 ai 30 milioni. Basta percorrerlo in pulmino e inoltrarsi lungo l’autostrada in una megalopoli senza soluzione di continuità. Attorno grandi fabbriche, grandi agglomerati e grandi opere. Tutt’altra cosa dalla Milano-Meda o dalla Valassina, le nostre autoroute del mobile e della piccola impresa lombarda. I nostri distretti sono nati dal basso attorno al campanile, al paese. Poi, se ce l’hanno fatta, sono arrivati in città e alla fiera di Milano. Le zone speciali sono nate dall’alto in un meccanismo di ingegneria politica economica e urbana costruita attorno alla fabbrica, non viceversa. Attorno alla comunità che si fa fabbrica. Non c’è traccia di quel modello brianzolo fatto di campanili, capannoni con villetta incorporata e nel giardino i nanetti davanti a casa. Nemmeno delle nostre case di ringhiera dei quartieri operai.
Qui, a fianco e in mezzo alle fabbriche, si intravedono alveari per gli operai ove il balcone fa da armadio. Lì appendono fuori gli abiti. Si guardano gli stracci che volano sui balconi, nel pulmino c’è silenzio. Quel silenzio che prende quando si osserva qualcosa di potente. La forza del capitalismo, del turbocapitalismo. Si riprende parola quando ci scaricano all’Hotel Luxor di Las Vegas. Essendo che il nostro albergo di fronte alla fiera di Dongguan è arredata all’interno in puro stile egizio. Questo non può che colpire una delegazione di fabbricanti di mobili e di interni per grandi alberghi alla ricerca continua di clienti, dalle Americhe, agli Emirati arabi e anche in Cina.
Proprio per questo la delegazione brianzola ha portato in fiera la mostra iMade ove è rappresentato il meglio del design italico. Il Clac l’ha già esposta in Canada, negli Usa e a San Pietroburgo. È fatta di oggetti che svelano la ricerca nei nuovi materiali che fanno l’eccellenza dei mobili italiani. Come la poltrona realizzata con la gomma speciale che serve a fabbricare le selle delle biciclette da corsa. Con molto coraggio si svelano e rappresentano i nostri metodi di produzione proprio nella tana del lupo. Faccio osservare all’amministratore delegato del Clac che è uno sfrontato invito a copiare e a imitare. Ma, come vedremo, i cinesi conoscono bene l’Italia.
La mostra fa bella mostra di sè al centro di un capannone con attorno la produzione cinese, poi quella delle imprese brianzole in visita, poi il meglio del made in Italy. La piccola potenza della creatività italica può essere ingoiata da un momento all’altro dal terzo cerchio del turbocapitalismo cinese. Sensazione che sembra lontana quando la mattina dopo i brianzoli si sguinzagliano come cani da tartufo ad annusare, tastare i mobili cinesi in esposizione alla fiera. Ne controllano le viti, i materiali, li sollevano li pesano e anche se trovano un po’ di imitazione dei loro mobili li guardano con un sorrisetto di superiorità. La fiera di Donguang non fa paura e nemmeno gli show room che visitiamo nella lunga strada che attraversa la città. Fatte le debite proporzioni sembra di essere a Lissone o a Cantù quando c’era il Palazzo della Permanente.
L’umore cambia, si fa cupo, il mattino dopo visitando la grande fiera di Guanzhou. Ci cade un primo mito: quello della fiera di Milano come il più grande spazio espositivo mondiale. La fiera è enorme, ben progettata e a ritmi frenetici stanno costruendo ancora capannoni e attorno enormi e avveniristici alberghi. È servita da due stazioni di metropolitane e da un servizio di battelli via mare. Dentro vi sono spazi espositivi ben progettati e mobili di qualità che attivano compratori americani, arabi, tedeschi. I miei brianzoli sbiancano in volto quando riconoscono alcuni dei loro clienti abituali che seduti firmano gli ordini e che gli dicono che quest’anno non verranno a Milano. Anche le copie dei prodotti salgono di qualità.
Le quindici impresine della delegazione assommano assieme tutti i segmenti produttivi del mobile. Ci sono imprese che fanno il mobile classico, quello moderno, un consorzio, il Pac (produttori artigiani Cantù) specializzato nel metallo, un produttore di sistemi (le cucine per intenderci) e anche un raffinato produttore di oggetti di nicchia progettati da Gaetano Pesce. Scopro che solo per me è la prima volta in Cina. Loro vi erano arrivati molto prima per reti individuali senza aspettare né la paura né l’esaltazione della "Cina vicina". Zanchetta della ditta Pierantonio Bonacina ricorda che lui ci veniva nel 1969, ai tempi delle tute blu, a comprare il midollino. Produce mobili moderni e oggi ha riconosciuto la sua poltroncina venduta a un cliente di Hong Kong, copiata pari pari con ottima maestria. La ditta Asnaghi Interior di Meda produce il classico. Ha arredato a Pechino gli uffici della Banca Popolare di Bergamo. Da 15 anni ha un cliente in Cina a cui ha dato fiducia dopo una bella lettera di accredito. Lo ha incontrato nel suo show room di 10mila metri quadri. Con grande onestà gli ha fatto vedere le copie e gli originali. Vende gli uni e gli altri. Decide il cliente. Più tranquillo Marelli delle cucine Boffi, perché attualmente i cinesi non sono ancora arrivati alla produzione di sistemi. E anche Poggio di Zero-disegno con i suoi pezzi unici di design. Ma complessivamente la visita a Guanzhou li ha preoccupati. Sembra la fiera di Colonia e può diventare il salone del mobile.
Cosa fare? Si decide di cercare i nuovi ricchi, di andare a vedere dove abitano, come vivono. I tanto decantati milionari cinesi a cui forse è possibile vendere il made in Italy. Il giorno dopo ci ritroviamo come antropologi dilettanti alla ricerca della tribù dei ricchi in un enorme parco a tema denominato Laguna Verona. Una città satellite grande tre volte Milano2, tutta cintata, ove abita il direttore della fiera di Dongguan. L’imitazione della laguna di Venezia (chissà perché l’hanno chiamata Verona) è fatta di laghetti artificiali, villette monofamiliari, ridenti condomini, un centro commerciale, un centro fitness, negozi di qualità e al centro del sistema un parco da golf da 23 buche. Mercedes e Bmw come se piovesse. Sembra di essere a Zelig con il Marco Ranzani di Cantù con il suo Porsche Cayenne. Rimango basito. I mobilieri si scatenano e in poche ore tornano dopo aver visitato appartamenti con le cubature e con i prezzi. Per 150 mq con vista in laguna il prezzo è di 95.000 euro, per 250 mq con entrata nel green del golf 250.000 euro. Può sembrare tutto finto ma i ricchi che comprano le Porsche esistono e possono comprare anche il mobile made in Italy. Il nodo è come entrare in questo mercato.
Il nostro ospite con cui si è organizzato il viaggio e la mostra iMade è un architetto-mercante cinese. Darren Hong, un Marco Polo a rovescio. Conosce tutto dell’Italia, del made in Italy, dell’italian style. Faceva l’architetto di interni a Taiwan. Venticinque anni fa arriva in Cina dove disegna una linea di mobili in stile tradizionale. Sono stati prodotti in Cina e alcuni pezzi sono esposti nei musei mondiali. Disegna anche i mobili per i grandi numeri e la bassa qualità della Cina comunista. Diventa art director dell’impresa governativa Tianthu a Pechino. Con l’avvento del turbocapitalismo ottiene dal governo di aprire show room in proprietà per 100 anni a Pechino, Shangai e Guanzhou. Oggi dirige un gruppo con uno studio dove lavorano più di 50 architetti, si occupa dei contratti per le Olimpiadi e ha anche una squadra di avvocati per i contratti di vendita e di localizzazione delle imprese.
L’offerta di Darren è chiara. Lui può comprare il made in Italy per i suoi show room ove i mobili italiani sono esposti assieme alle Cadillac e venderli a quelli che abitano nelle tante Laguna Verona che sorgono in Cina. Ma poi bisogna puntare sull’italian style. Questo può essere coprogettato e coprodotto in Cina dai designer e dalle fabbriche italiane che vogliono qui localizzarsi. Darren, il mercante, si offre per l’uno e per l’altro. Lo scopo della delegazione è raggiunto. Da quel momento inizia, come logico, la trattativa privata per ogni singola impresa e ci si dà appuntamento al salone del mobile di Milano. Ci resta un’ultima curiosità. Guardare dietro i grattacieli e dentro le fabbriche. La mattina presto dalla finestra dell’albergo si vedeva la polizia che ripuliva le strade davanti alla fiera dai senza tetto che vi dormivano la notte. Per l’apertura la fiera era pulita e linda. Di più non ho visto. Anche se immagino che le special zone industriali sono tutt’altro dai nostri distretti ove il rapporto citta-campagna è stato risolto con una industrializzazione senza fratture.
Visitiamo due fabbriche di mobili. La Dickson che fa mobili moderni con 600 addetti e la Saoswm che fa mobili per ufficio con 1000 addetti. Il gruppo Molteni, uno dei più grandi della Brianza, ne ha circa 500. Colpisce la giovane età degli operai, le macchine che sono tutte italiane, molte Scm di Rimini, e si capisce il perché della tenuta nella globalizzazione della filiera delle macchine utensili. Le vernici sono italiane e su dieci stazioni di verniciatura, la fase più nociva della lavorazione, solo una è robotizzata con un robot della Cefla di Treviso. Vengono in mente i conflitti aspri sulla nocività alle linee di verniciature delle nostre catene di montaggio. Ci si informa su tempi, ritmi e salario. È tutto un po’ vago. Ma capisco che si lavora 7 giorni su 7, dalle 10 alle 12 alle 14 ore, per un salario di 30-40-50 euro al mese, con due giorni di riposo. I brianzoli invocano il sindacato da esportazione.
Qui si producono i mobili in puro stile fordista. Si fabbricano e poi qualcuno li comprerà. Da noi c’è la line production. In stile postfordista prima si riceve l’ordine e poi si fa il mobile mobilitando le linee dentro la fabbrica e le reti dei subfornitori diffusa sul territorio. In questo modello flessibile da capitalismo di territorio ci si sente competitivi anche rispetto ai grandi numeri della fabbrica cinese. Prima di ripartire ci diciamo che il made in Italy ha un modello produttivo flessibile altro dal turbocapitalismo cinese. Un tasso di ricerca su nuovi materiali e sul design di prodotto difficilmente copiabile. Molto dipenderà dai mercanti. Quelli che tracciano le reti lunghe degli scambi e del commercio tra Cantù e Guanzhou, come Andrea Cancellato, amministratore delegato del Clac di Cantù, e Darren Hong che ci apre le porte della Cina vicina.
ALDO BONOMI