
L’Italia fieristica deve crescere Soprattutto nelle dimensioni
da Finanza&Mercati del 19-09-2006 Fare i conti con la progressiva decadenza dell’Europa, che sta perdendo pian piano lo status di baricentro mondiale a favore di Russia, India, Cina e Sud America (soprattutto Brasile). Questa la sfida che deve cogliere il sistema fieristico italiano, coinvolto in un profondo cambiamento che riguarda la natura stessa degli attori in campo: mentre le società più grandi (e attrezzate) si sono già aperte al mercato, molti enti di medie dimensioni si stanno trasformando in società di capitali. Un passaggio fondamentale per dotarsi delle strutture necessarie per competere nell’arena internazionale. Anche sfruttando gli strumenti messi a disposizione dall’Aefi, l’associazione esposizioni e fiere italiane. E il presidente dell’ente Piergiacomo Ferrari (che è anche amministratore delegato di Fiera Milano, ndr) ha illustrato a FM Imprese le iniziative messe in campo in tema di internazionalizzazione. Con quali strumenti si affronta la nuova sfida della competizione globale? Le fiere hanno iniziato ad aprire uffici nei Paesi stranieri, ma è solo il primo passo. Per conquistare i mercati esteri bisogna esportare intere manifestazioni sino a installarsi, nelle fasi più avanzate del processo di delocalizzazione, con vere e proprie strutture organizzative nel Paese estero. Ma l’Italia, in questo ambito, è rimasta indietro. E bisogna muoversi, perché in Europa rimarranno sempre meno grandi quartieri fieristici. In Italia, tuttavia, gli operatori riescono a proiettarsi oltreconfine solo in maniera frammentata. Un handicap non da poco, rispetto ai competitor, tanto «in trasferta» quanto «in casa». Proprio questa è stata ed è ancora la nostra debolezza: avere un sistema fieristico suddiviso in tanti quartieri di piccole dimensioni. La Germania, che è il nostro concorrente europeo di riferimento, ha cinque grandi poli fieristici. Noi appena uno. È una critica alle strategie dei decenni passati, che hanno prodotto un sistema polverizzato? In parte sì. Da un lato, chi aveva le caratteristiche per crescere non le ha sfruttare abbastanza. Come Roma, che anche con il suo nuovo quartiere – per il quale è stato fatto un grande sforzo, finanziario e non solo – mantiene una potenzialità espositiva da polo di medie dimensioni. Va detto, però, che la fiera della capitale è nata troppo tardi rispetto alla collocazione delle più importanti rassegne internazionali. Dall’altro lato, un’eccessiva moltiplicazione dell’offerta ha prodotto alcuni paradossi: in Sicilia ci sono tre fiere, a Palermo, Catania e Messina. È un po’ troppo, sarebbe opportuno che nell’isola ce ne fosse una sola. Lo stesso avviene in Emilia-Romagna: Bologna è una piazza importante già oggi, ma delle aggregazioni che procedessero lungo la via Emilia, dall’Appennino all’Adriatico, farebbero emergere un player di status internazionale. Tralasciando i casi specifici, cosa dovrebbe fare l’Italia, a livello di sistema, per migliorare i propri vantaggi competitivi? Attivare iniziative diverse, andare oltre l’approccio ormai superato che la fiera deve fornire solo una vetrina commerciale pura e semplice. Le fiere devono invece diventare soggetti attivi, in grado di erogare un mix di esposizione, informazione, promozione, formazione, cultura di settore e organizzazione di eventi collaterali. Solo così saremo in grado di sconfiggere il tecnicismo dei tedeschi. E Fiera Milano ha dato il la, in questa sfida. Non solo cercando la competizione, ma anche le sinergie. Come nel caso del recente accordo raggiunto con la fiera di Hannover per organizzare manifestazione nei Paesi emergenti, Cina in primo luogo.