
L’assuntrice di Tuscania
di Carlo Ossola
In qualche romanzo di fine Ottocento si trova ancora l’"assuntore" di una piccola stazioncina di linea periferica che provvede a pulire e scaldare la sala d’aspetto, a sgombrare dalla neve i marciapiedi, spargere il sale, togliere le erbe dai binari. È un mondo dove le professioni povere cumulano servizi: nel Romanzo di un maestro di De Amicis l’autunno porta gli allievi, l’inverno la dolente questua di legna da ardere per non gelare in classe, l’estate i villeggianti che ignorano questo paria e le tante ore di cammino e di zoccoli che furono stenta classe e ora braccia di lavoro nei campi.
Prima che la società del capitale, dei rischi, delle assicurazioni e riassicurazioni provvedesse a fare dell’"assuntore" una figura di alto profilo, e non minore tornaconto, qualche ultimo esemplare s’era trovato: due o tre sudditi della Serenissima che l’Ente per le Ville Venete adibiva a "periodiche pulizie" delle barchesse, sfalcio dei prati, nel queto scorrere del tempo e dei ritmi palladiani.
Oggi «il giorno è uno di quei giorni di sole, né primavera né estate, che si fanno godere dagli uomini quasi inconsapevolmente. Il sereno, la luce, l’arietta di mare ci sono. … E il mondo intorno è quello dei poveri, com’è naturale che ci sia» (Pasolini, Uccellacci e uccellini). Dimenticata Capalbio, ci si addentra un po’ nei tesori silenti della Tuscia superiore: vi appare improvviso, alto, severo, perfetto di ritmi, svettante sulla valle, il romanico di San Pietro, con la sua maestosa abside fortificata, sullo sprone di Tuscania, «con la sua goccia di luce benedetta». Cercando la facciata vi accolgono dapprima, sui lati, due possenti torri, di fronte a esse il luminoso palazzo episcopale, in mezzo un tenerissimo prato che specchia il rosone cosmatesco ove, accanto agli Evangelisti, si rincorrono figure fantastiche, animali e demoni in precipite discesa verso l’astante. Si pacifica poi la luce via via che vi addentrate nell’interno dell’ottavo secolo, di misurato raccoglimento tra sarcofagi etruschi e transenne marmoree che sembrano diafani ricami. Scendendo nella cripta che inviluppa 28 colonnine di epoca romana (tutte le civiltà e le religioni raccolte in minimo spazio), così da creare un trasparente labirinto, vi viene improvviso in mente il corteo velato di Nostalghia di Tarkovskij, quel lento incedere – sempre lì e sempre nell’infinito – di lumini e di mistero. E allora risalite nel sole e vi appare, ginocchioni, la figura in preghiera di Totò, Ciccillo di fronte al mirabile rosone, in Uccellacci e uccellini di Pasolini, e in altri film francescani (Cavani) il mercato accanto all’arco, e il vocìo, e gli sguardi e le monete. Memoria arcana di anni del Novecento che hanno unito la povertà e la gloria, il Medioevo e il presente, la perenne Italia di arte, contemplazione, popolo. Sotto le due bifore che incorniciano il rosone, due opposte figure, un demoniaco viluppo di serpi e di fauci del Male da un lato, e dall’altro una figura danzante che sostiene una mensola: memoria di riti etruschi o Atlante che sostiene il mondo redento della creazione? Mentre vi aggirate fantasticando sul fascino di questo ricetto millenario che unisce in armonia Etruschi, Romani, riti pagani e Medioevo cristiano, vi viene incontro Paola, l’"assuntrice" di Tuscania. Capelli corvini, fiera e dimessa a un tempo, vi accoglie sul portale, in mano le chiavi di un regno che venera, non riconosciuta. Ricorda nei gesti quella pasoliniana semplicità «limitandosi a dire tutto quello che si vede intorno, come se fosse la faccia di Dio». Da tre generazioni la stessa famiglia cura, quasi fosse un figliolo e un avo, questo monumento aprendo alle visite (senza per altro avere ruolo e stipendio di custode), vigilando su affreschi e marmi, pulendo e intrattenendo il magnifico prato, con il solo titolo di "assuntori" che pare valga (il riserbo non ha permesso di andare oltre) qualche centinaio di euro l’anno!
Ne sono uscito ammirato e vergognato: in uno dei luoghi più belli che l’umanità possa contemplare (e ancora vi vengono inglesi e tedeschi, francesi e spagnoli, e pure qualche italiano) lo Stato che ne è proprietario spende spiccioli, in attesa che tutto vada in rovina, quando sarà sfinito di attendere anche l’ultimo "assuntore" del regno.
E va in rovina la Biblioteca Nazionale di Torino, perché mancano i soldi per rinnovare gli abbonamenti alle riviste, danneggiate da intemperie intere serie di periodici, rotta la macchina fotocopiatrice, sempre più radi gli studiosi. E così buona parte del nostro patrimonio librario e archivistico, senza risorse, senza strumenti, senza avvenire. La prossima volta che un cineasta si volgerà verso i luoghi che furono "paesaggi dell’anima", avrà solo da copiare la sequenza iniziale di Germania anno zero.
Signori Ministri, Loro sanno bene che la rincorsa della ricerca scientifica italiana al presente mondiale è già persa. Per fabbricare una nuova molecola che possa determinare un farmaco commerciabile internazionalmente, ci vogliono oggi – ove si disponga di laboratori di punta come il Pasteur – tra 60 e 80 milioni di euro: cioè il passivo medio di ciascuno dei nostri maggiori Atenei. I giovani più bravi lo sanno e se ne vanno.
Ma almeno il passato, che ci è stato regalato, si abbia la dignità di conservare; sprechiamo montagne di soldi in un effimero sguaiato che si spegne in una notte, e non si trovano poche migliaia di euro per custodire l’anima del nostro Paese, del nostro futuro, della nostra dignità. Sono partito da Tuscania, discendendo i dolci declivi verso Chiarone Scalo: un luogo – oggi ancora, e per fortuna, appartato – da cui Carducci, un secolo fa, già contemplava la rovina d’Italia: «Stendonsi livide l’acque in linëa lunga che trema / sotto squallido cielo per la lugubre macchia. / … Odo pauroso carme che voi bisbigliate co’ venti, / di rospi, di serpi, di sanguinanti cuori. / … non cerco un regno, io solo chieggo al mondo l’oblio. / Oblio? No, vendetta. Cadaveri antichi, pensieri / che tutti una ferita mostrate aperta e tutti / a tradimento, su! su da ‘l cimitero del petto, / su date a’ venti i vostri veli funebri. / Qui raduniam consiglio, qui ne l’orribile spazzo, / a l’ombre ignave, su le mortifere acque» (Pe ‘l Chiarone da Civitavecchia).
Tale, allora e oggi, lo stato delle cose. Carducci si consolava leggendo Marlowe; a noi rimane anche meno: «Camminano, facendosi sempre più lontani e piccoli, laggiù, nel sole, lungo la loro strada, come in un film di Charlot. Il rombo potente di un aeroplano dilegua sulla parola…» (Uccellacci e uccellini).