
Il salotto fa quadrato
É aprile, e dunque, puntualmente, è Salone. Salone Internazionale del Mobile, va subito precisato, visto che quest’anno la vetusta etichetta della manifestazione è stata messa in ombra da quella di “Milano Design Week”. Ma le parole, si sa, restano parole, e il Salone del Mobile, giunto alla 43 edizione, continua a essere un grande appuntamento di lavoro e una vetrina indispensabile per saggiare lo stato dell’arte dell’arredo. Le cifre sono eloquenti: 1.900 espositori, migliaia di giornalisti e centinaia di migliaia di visitatori confermano il ruolo primario che l’esposizione continua ad avere a livello mondiale. Ma la quantità non è certo garanzia di qualità, e difatti questa edizione è apparsa subito un po’ spenta, sotto tono e, in fin dei conti, assai poco propositiva.
Il Salone di divide in quattro grandi rassegne: il Salone del Mobile e del Complemento d’arredo, con i settori del Bagno e del Tessile per la casa, Eurocucina, Eimu, ovvero l’esposizione del mobile per ufficio, e il Salone Satellite.
A giudicarle separatamente, queste rassegne sembrano confermare le tendenze in atto già da qualche tempo. I salotti puntano a disegnare lo spazio secondo modelli di geometria euclidea fondati sulle figure elementari del quadrato e del cerchio, appena rielaborate da una più insistita ricerca come quella della Moroso. Il bagno conferma la sua vocazione altamente tecnologica, sia nella scelta degli apparati strumentali, sia nell’impiego di nuovi materiali, e indulge anch’esso sul rigore geometrico degli apparecchi e della rubinetteria (per esempio nei prodotti della Hansgrohe disegnati da Citterio). La cucina ribadisce la sua natura di sofisticato laboratorio culinario e inclina ancora a una monumentalità che sembra farne il cuore della casa. L’ufficio, invece, punta più che nel passato alla levità, alla trasparenza, alla componibilità (interessanti le poltroncine della Ibf, dalla struttura in materiale trasparente); le ricerche proposte nel Salone Satellite si disperdono in una miriade di invenzioni dalle quali non emergono né una tendenza né una personalità.
In tale contesto, le antiche distinzioni di stile appaiano del tutto obsolete. La piantina che indica la posizione delle varie rassegne nei padiglioni della Fiera avverte che qui è il settore del “classico”, lì quello del “moderno” e più oltre quello del design. Ma si tratta di pure etichette, che un Salone ribattezzato Design week accetta come semplici opzioni di mercato, dietro le quali non c’è alcuna scelta di stile o, quanto meno, di gusto. In pratica, è difficile distinguere l’una dall’altra, sicché tanto vale riunirle nel l’unica formula possibile, quella del design, per l’appunto, che copre e spiega tutto.
Fin qui siamo comunque nella norma, ovvero in una prassi che difficilmente denuncia da un anno all’altro trasformazioni rilevanti. Se però si guarda l’insieme in una prospettiva unitaria, affiorano alcune costanti che attraversano tutti i settori e ne lasciano trasparire una vaga matrice unificante. L’impressione più immediata è quella di trovarsi dappertutto dinanzi alla stessa foto di famiglia scattata in un “interno giorno” cinematografico. In effetti il cinema d’oggi inclina a circoscrivere ogni vicenda nella sfera dei sentimenti privati, e dà quindi ben conto di un arredo che tende a trasformare qualunque ambiente, anche quello di lavoro, in ambiente domestico, spazio familiare, circolo magico e protetto nel quale si consumano i sogni e le asprezze della nostra esistenza quotidiana. La casa diviene così lo spazio della sicurezza, e ogni spazio diviene una casa. L’ufficio sfuma nel salotto, il salotto prelude alla camera da letto, la cucina e il bagno si fanno luogo della tecnologia, che a sua volta rimanda all’ufficio. I colori e le forme si rincorrono da un ambiente all’altro, creando una continuità che ricorderebbe quella di altri periodi (soprattutto gli anni Sessanta del secolo scorso). Se non ci fosse una differenza sostanziale: allora si trattava di uno stile unitario che affermava un’ideologia e un modello di esistenza sociale tutta proiettata sull’esterno, mentre oggi siamo di fronte all’implosione in un “privato” che fa d’ogni luogo un ambiente domestico, un rifugio, una classica monade senza porte né finestre, da cui guardare il mondo solo attraverso schermi elettronici.
Ciò potrebbe spiegare la centralità della cucina e del bagno, che esigono sempre più spazio nella casa, spazio fisico, non meno che psicologico. Con il suo apparato scenografico, la cucina si presenta ormai come una sorta di theatrum sanitatis, dove si consumano gli ansiosi riti di una nutrizione più rassicurante che funzionale, mentre la struttura tecnologica del bagno rinvia all’ossessione di un’igiene preoccupata più della forma del corpo che della sua reale salute. Non per nulla questo Salone ospita, nel Salone Satellite, la mostra Dining Design, tutta concentrata sullo spazio della ristorazione e sul design della nutrizione. Qui, però, troviamo almeno una novità. L’idea del cibo vi emerge infatti, nelle proposte dei giovani, come occasione informale di socialità, il che rende gli ambienti aperti, mobili, continui, dominati da una fluidità che, come nello spazio disegnato dagli studenti della Rode Island School, consente di cogliere per un attimo lo scorrere ininterrotto delle esperienze.
Viene da chiedersi se proprio in questa intuizione non si debba ricercare il germe di una nuova filosofia progettuale.
L’intercambiabilità, la fluidità, lo slittamento continuo del senso delle cose, sono ormai valori culturali abbastanza radicati nel nostro tempo, come già ci avverte l’architettura, alle prese per un verso con la dimensione infinita della città e per un altro con l’enigma antropologico dei “non-luoghi”. Che anche l’arredo degli interni domestici o di lavoro si trovino di fronte gli stessi scenari, spia di una società che sta cercando la sua nuova identità in un mondo sconvolto, potrebbe essere un’ipotesi sulla quale lavorare.