Rassegna stampa

Il mercato (o la fiera) dell’interesse particolare

di Salvatore Carrubba
Vita grama quella del deputato, soprattutto se di maggioranza: al Senato, qualunque suo collega può permettersi di alzare non solo la voce ma soprattutto il prezzo per il proprio voto sulla Finanziaria, che rischia di risultare determinante. A lui invece, annegato nel robusto margine assicurato alla Camera dal premio di maggioranza, non è consentito alcun protagonismo e alcun ricatto.
Così, dal premio Nobel al rappresentante argentino, in questi giorni al Senato è tutto un fiorire di altolà e di avvertimenti: se non trovo i fondi per la causa che mi sta a cuore, dimenticatevi il mio voto, anche a costo di travolgere con Sansone tutti i filistei, cioè, più prosaicamente, di mandare a casa il Governo. È assai probabile che questo intendimento sia molto lontano dalla volontà di chi oggi mette sul mercato il proprio voto; ma questo, se possibile, ne aggrava la posizione, perché dimostra più che l’attaccamento alla causa, la causa dell’attaccamento alla maggioranza: ottenere più che sia possibile, sia pure per un’ottima ragione. E poiché, sulla carta, tutte le ragioni sono ottime, la sgradevole impressione finale è quella di un mercato continuo, che non giova al prestigio delle istituzioni e dei suoi rappresentanti, alla causa del Governo, all’impegno per il risanamento.
Parlamentari e cronisti esperti (e disincantati) obietteranno che l’assalto alla diligenza è una tradizione di tutte le Finanziarie. È vero. Al punto da rendere necessario uno sforzo bipartisan per ripensare alla legge di bilancio, che oggi mostra tutti i limiti e tutte le rughe del tempo. In nessun caso, comunque, la tutela dell’interesse spicciolo si era spinta al punto di essere esercitata dal singolo parlamentare, di un singolo ramo del Parlamento, autorizzato a sentirsi titolare di una sorta di potere di veto sull’Esecutivo. Per di più, coi precedenti sistemi elettorali, il parlamentare a qualcuno, almeno teoricamente, rispondeva, oltre che ai suoi capi: agli elettori di cui aveva conquistato le preferenze, o al collegio che rappresentava. Ora, invece, egli deve la sua nomina esclusivamente a una ristrettissima oligarchia di partito che, candidandolo nel posto giusto, gli ha assicurato il posto.
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Tra i pessimi risultati dell’attuale legge elettorale (da modificare ricorrendo a tutti i mezzi leciti possibili), insomma, non c’è neanche la disciplina del parlamentare, considerando che il gioco al rialzo non è certo praticato solo dai senatori a vita.
Così, dopo aver tanto discusso del rischio di una politica personalizzata allo spasimo, in cui le facce e i sorrisi di un paio di leader contano più dei programmi e dei progetti, ci ritroviamo spesso alla mercé di parlamentari oscuri le cui priorità, sempre costose, possono risultare poco coerenti con gli intendimenti generali del Governo e, soprattutto, con gli interessi generali del Paese. E che certo non si ritrovano nel decalogo (proposto a Chieti dal vescovo Bruno Forte col consenso del ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa) che impegna il politico ad «amare il bene comune più che l’interesse della tua parte».
Retorica? Moralismo? No, semplice e freddo richiamo alle possibili patologie delle democrazie, già sottolineate da studiosi immortali come Tocqueville e poi coltivate dai politologi più avvertiti che mettono in guardia contro i rischi, paralleli, della "dittatura della maggioranza" e del peso delle lobby e delle corporazioni che riescono efficacemente a piegare la formazione della volontà parlamentare ai propri disegni e ai propri interessi, delineando, allora sì, un fatale destino di "declino della nazione", come diceva uno degli studiosi americani più sensibili al tema.
È questo il rischio che stiamo affrontando, piegando al ricatto pur benevolo e dettato dalle migliori intenzioni quello che la maggioranza presenta come un disegno complessivo di risanamento. Ed è questa la spia dell’autentico "impazzimento", per riprendere l’immagine del Presidente del Consiglio, Romano Prodi, che tanto disorienta i cittadini.
Bene fanno senatori a vita, ministri, parlamentari a imporre al dibattito la centralità di temi fondamentali quali la ricerca, la sicurezza, l’università. Ma il brusco ricatto ("prendo i soldi e voto") perpetua un’illusione pericolosa: quella che basti passare alla cassa, senza mettere mano a meccanismi efficaci di controllo sull’efficacia e l’efficienza della spesa, ossia tagliare le spese improduttive, eliminare i burocrati inefficienti o fannulloni, ripensare le modalità di fornitura dei servizi pubblici, riflettere sul ruolo stesso della politica. Un ricatto e un’illusione che possono rivelarsi efficaci nell’immediato, ma che rischiano di perpetuare, anziché risolvere, i problemi. E di ridurre sempre di più i margini per un’effettiva azione riformatrice.
Salvatore Carrubba

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