Rassegna stampa

Fiere alla scuola di Parigi

di Francesca Golfetto*

Il decentramento alle Regioni dei sistemi autorizzativi sulle manifestazioni e l’aumento della concorrenza tra quartieri fieristici ha portato senza dubbio a una proliferazione degli eventi – e in particolare di quelli di livello internazionale – non sempre giustificata dalla specializzazione e dalla segmentazione dei mercati.

Ciò ha conseguenze negative sulla funzione di marketing collettivo che tali iniziative svolgono per il sistema manifatturiero nazionale, il quale – soprattutto in Italia – usa le fiere come "distretti commerciali", in grado di superare la difficoltà di contatto dei mercati esteri, tipiche soprattutto delle piccole e medie imprese.

Occorre a tal proposito premettere che non tutte le fiere qualificate come internazionali svolgono prevalentemente questa funzione per l’industria nazionale: mentre infatti alcune manifestazioni sono focalizzate sulla promozione dell’offerta nazionale (fiere dell’esportazione), attirando grandi quote di visitatori esteri a fronte di espositori prevalentemente nazionali, altre sono focalizzate sul soddisfacimento della domanda nazionale (fiere dell’importazione), proponendo espositori in grande parte esteri, ma attirando essenzialmente visitatori nazionali. In Italia, le manifestazioni con qualifica internazionale della prima tipologia sono poco più della metà, ma sono quelle che risentono in modo più pesante della proliferazione degli eventi. Mentre infatti la proliferazione delle fiere della domanda è essenzialmente regolata dal mercato – visto che un espositore decide individualmente se una data manifestazione ha un bacino di attrattività adeguato ai suoi interessi – le manifestazioni dell’offerta proliferano e sopravvivono grazie soprattutto agli sforzi delle industrie locali, alla ricerca di una propria visibilità. Tali industrie locali, tuttavia, mettendosi in competizione, spesso finiscono per fare il gioco del "terzo gode".

Ne è esempio la storia delle fiere internazionali dei tessuti di abbigliamento in Italia, per decenni rimaste troppo numerose e legate ai propri distretti di origine: solo di recente si sono riunite in un’unica sede (Milano Unica), restando tuttavia "separate in casa". E ancora oggi tale separazione impedisce loro di sfruttare il potenziale della loro sofisticatissima e variegata offerta per influenzare i mercati di domanda, come invece hanno saputo fare certe manifestazioni francesi (per esempio Première Vision) che tengono ben saldo il primato di visitatori internazionali. Eppure l’Italia è notoriamente il principale produttore ed esportatore europeo di prodotti del tessile-abbigliamento e avrebbe tutte le chance per essere leader nelle fiere di settore: e invece la lotta delle location italiane ha permesso la crescita indisturbata delle manifestazioni francesi, e con loro, la massima visibilità dell’industria locale, benché essa sia oggi quasi marginale in Europa.

Come hanno fatto i nostri concorrenti d’oltralpe? Non si tratta solo della location – Parigi – indubbiamente di attrattività superiore rispetto ad ogni altra. I francesi – ma soprattutto le associazioni locali che controllano le iniziative fieristiche – hanno mostrato una straordinaria capacità di sfruttare il "marketing collettivo" che si basa non tanto sulla attività-somma dei singoli espositori, quanto sui meccanismi che permettono la collettiva partecipazione di questi alla forgiatura degli indirizzi futuri dei mercati, quali ad esempio i fashion trend. Potenza del marketing collettivo, che è in grado di influenzare stili di prodotto e standard di tecnologia: con il marketing collettivo, infatti, una fiera non è solo lo specchio del mercato, ma può essere lo strumento per influenzarne le scelte.

Oggi che le lotte dei nostri settori manifatturieri non si fanno più solo all’interno dell’Europa ma si giocano soprattutto verso Oriente, anche la lotta delle fiere si sta ampliando a nuove location di quei paesi. Ma la storia è sempre la stessa e si dovrebbe far tesoro dei meccanismi che i francesi ci hanno insegnato nel caso delle fiere tessili. I benefici di quelle fiere sono andati anche a favore di alcune aziende italiane che hanno saputo sfruttare il palcoscenico parigino e i network tra imprese per influenzare i trend della moda ai propri fini. Perché non tentare iniziative simili anche nelle presenze degli italiani nelle fiere in Cina? Perché non trasformare le nostre aziende da singoli espositori ad attivi competitor che gestiscono network di potere all’interno delle fiere estere? Credo che questo sia un ruolo chiave per le associazioni dei produttori, affinché le nostre aziende non partecipino passivamente alle iniziative degli organizzatori fieristici e degli enti nazionali di promozione all’estero. Inoltre, le associazioni dei produttori possono stare al di sopra degli interessi delle singole location e tentare di rimettere insieme i mille rivoli promozionali delle nostre industrie. Per fare un passo avanti, le fiere possono fare molto: perché l’innovazione di marketing spesso vince anche sull’innovazione tecnologica, e alle imprese italiane manca soprattutto la prima.

*Università Bocconi

direttore Osservatorio Fiere Cermes



www.cermes.uni-bocconi.it

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sui mercati e sui settori industriali dell’Università Bocconi

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