
Fieramente collezionisti
di Angela Vettese
Almeno fino ai primi anni Settanta, non amavano si sapesse che compravano certe opere: i loro gusti avrebbero potuto farne degli strambi. L’arte contemporanea non era un lasciapassare nel mondo e anzi poteva generare il sospetto che chi se ne circondava fosse poco affidabile.
In Italia esisteva chi, come Gianni Mattioli, affittava un appartamento aperto al pubblico perché potessero essere visti i suoi Boccioni, i suoi Morandi, i suoi Russolo, considerando la proprietà privata come una forma di custodia. Una vera eccezione che non è stata incoraggiata da nessun ente pubblico. Qualche altro, nel tempo, ha mostrato le proprie raccolte – tra questi Giuseppe Panza di Biumo, Giuliano Gori, Paolo Consolandi – ma la maggior parte dei collezionisti è rimasta nell’ombra, spaventata anche dai furti e dal disonore che, in certi anni, colpiva chi amava appariva troppo.
Il loro orgoglio era comprare a poco e non rivendere mai. Avere conosciuto Manzoni, averne avuto un uovo solo con l’impronta del pollice e avere anche lasciato che scoppiasse, vittima del suo stesso gas. Le opere sbagliate andavano dietro alla tenda e quelle giuste nella casa del mare. I soldi spesi così non sembravano investimenti, almeno non quanto una buona pelliccia.
Le cose hanno iniziato a cambiare alla fine degli anni Settanta, con l’assurgere del narcisismo universale e di quello che oggi definiamo image a leggi delle pubbliche relazioni. Sdoganata da Manhattan di Woody Allen e ritornata dopo secoli status symbol dopo Wall Street con Michael Douglas, l’arte contemporanea si fece avanti da New York, negli anni Ottanta, accoppiata a un ciclone di denaro da scambiare, mostrare, rimestare e spesso da riciclare.
Iniziò l’era dei grandi record, mai finiti fino a giungere al più recente: l’ Hanging Heart di Jeff Koons, venduto di recente al gallerista Larry Gagosian per un totale di 23,6 milioni di dollari, oggi è l’opera d’arte contemporanea meglio pagata del mondo; e questo proprio mentre un campo di grano di Van Gogh, l’autore grazie al quale era iniziata la corsa al grande prezzo, se ne ritorna a casa invenduto per non avere raggiunto la stima minima (28-35 milioni di dollari). Trenta o venti anni fa si preferiva andare sul sicuro e i Girasoli vennero comperati dal gruppo giapponese Yasuda per 25 milioni di dollari (1987).
Benché non manchino follie per Modigliani e Matisse e nemmeno per i pezzi archeologici collezionare arte strettamente contemporanea è diventato un comportamento capace di generare un alto consenso sociale e addirittura di dare un ruolo a persone che altrimenti, senza questo costoso hobby, non ne avrebbero alcuno. Sono queste ultime che di solito nascondono i propri consiglieri, mentre altri, di solito persone molto impegnate nel loro mestiere, sono fieri di avere un consulente di fiducia profumatamente pagato. Anche le opere le si paga volentieri prezzi esosi, sopportando liste d’attesa che precludono la scelta dell’opera: quando arriva il tuo turno o prendi o lasci.
Pagando molto si dimostrano le potenzialità del proprio portafoglio, come succede quando si mostra con orgoglio una propria dimora. Non si cerca la promessa ma l’emergente, cioè l’artista già apparso in una o due copertine di riviste specializzate: l’acquisto fa più colpo se l’autore è già vezzeggiato dalla critica.
Una volta ci si vantava di comperare con gli occhi «ciò che piace». Ora a farla da padrone è l’informazione: si compera con le orecchie, cioè seguendo quel che si sente dire: i punti salgono se un artista è stato invitato a una Biennale importante, se andrà a far parte della scuderia di un gallerista top, se lo hanno già comperato tizio e caio… ma su questo attenzione: i compratori non devono esser troppi e soprattutto mai scendere sotto la soglia di una certa raffinatezza; altrimenti crolla il castello del mito. E nonostante il cinismo evidente in questo nuovo gioco di società (ma è poi davvero così nuovo? Non fu una moda avere un Canaletto?) è ancora il suo aspetto mitico a trasformare un’opera in un oggetto del desiderio.
Mito vuol dire mistero, inafferrabilità, lusso. Anche poesia che solo pochi possono capire, da aggiornamenti continui e perché no, appassionati. Poesia sorretta da una quantità di denaro che capiscono tutti, peraltro.
Per esser collezionisti di un certo calibro, insomma, la ricetta di un tempo non funziona più. Se paghi poco nessuno si accorge che comperi. Se non rivendi nessuno si accorge che hai scelto bene almeno in termini finanziari.
Avere le informazioni giuste può richiedere molta lettura, viaggi scomodi alla ricerca delle mostre importanti e per i più coscienziosi anche visite in studio, forse le meno praticate per timidezza reciproca di artisti e collezionisti.
Camminare per una fiera, invece, mette al riparo da implicazioni umane troppo fonde. Fa raccogliere molte notizie. Spiega cosa davvero è sul mercato. Permette di saggiare i margini di contrattazione. Fa divertire. Fa incontrare amici. Fa sapere cosa si è appena preso al lazo. Per questo il pubblico di una di queste feste può raggiungere i 43mila visitatori (in quattro giorni!) di Art Basel Miami 2007, vissuta in un trionfo di abbronzature, party esclusivi e vendite lo scorso dicembre.
Dato il corredo di eventi che le fiere si sono date, poi, la cosa migliore che può capitare a un collezionista è quella di salire su di un podio: un palco in cui a intervistarlo sia un critico di grande spessore, magari lo stesso che ha appena avuto un incontro con un artista famoso o con un gallerista che fa opinione. Le signore si acconciano la frangetta e i signori il nodo della cravatta, parlano con finto imbarazzo, contano i loro sacrifici e raccontano il loro piacere, esprimono opinioni sul l’andamento delle nuove correnti e qualche volta persino sul mondo intero.
Già. Comprare arte contemporanea significa guadagnarsi un accesso in quei salotti dove si costruisce il pensiero di un’epoca. Forse è troppo, e vedremo cosa accadrà dopo lo scoppio della bolla speculativa: È vero che i cinesi e gli indiani stanno portando il loro denaro dappertutto, ma la storia va verso primavere serene e non sappiamo che ne sarà nel tempo delle dinamiche del lusso. Il miracolo del contemporaneo dura da trent’anni, tranne un lustro tra il 1990 e il 1995. Il moralismo è fuori luogo e così anche il cassandrismo. Purché chi si getta nel gioco sappia che si può perdere: l’arte potrebbe ritrovarsi, come spesso è successo, a sopravvivere senza i mecenati privati e senza gli aiuti statali che ora pompano le sue glorie.