
«Fiera: no a un verdetto lacerante»
«Non si può rovinare oltre mezzo secolo di storia in cui la Fiera è nata ed è cresciuta grazie al felice connubio tra pubblico e privato, tra enti e associazioni di categoria, con un lodo arbitrale che è a dir poco lacerante». L’avvocato Mariano Fina, ex presidente dell’ente fieristico, interviene sulla vicenda della trasformazione della Fiera in spa-società per azioni proprio mentre in città ribolle ancora l’eco del lodo arbitrale che ha assegnato solo a Comune, Provincia e Camera di commercio il diritto ad avere le azioni della ‘spa’, tanto che gli altri attuali soci Assindustria, Assoartigiani, Confcommercio, Apindustria, Coldiretti, Confagricoltura e Cna stanno valutando se ricorrere in appello. «La questione base – spiega Fina – è che chi oggi decide per il futuro della Fiera non ha la memoria di quanto accadde dal ’48 in poi, del perché e del come nacque la Fiera, e rischia di arrivare adesso a scelte, come ho detto, laceranti». Entrato per la prima volta in Fiera nel ’66 come terzo vicepresidente (presidente Breganze, ‘vice’ Facco e Anesini, segretario Onestini), Fina ricorda praticamente tutto: il trasloco dai Giardini Salvi a Vicenza ovest, il passaggio dalla fiera campionaria a quelle specializzate e soprattutto orafe, i vari statuti. E giudica «non sufficientemente motivate, o immotivate, le conclusioni del lodo arbitrale». Per un motivo base, tanto per cominciare: «le associazioni di categoria – spiega Fina – sono state le vere protagoniste dell’attuale Fiera». La Fiera è nata in modo anomalo (fu per decenni ‘associazione non riconosciuta’, senza appunto la trasformazione in ente fieristico avvenuta solo nel 1988). Ha camminato – rimarca Fina – per decenni sulle gambe di manager vicentini orafi. E infine basa il suo capitale – quello su cui si discute da due anni per la spartizione delle azioni della nuova ‘spa’ – non certo sulle famose 500 mila lire e 100 mila lire versate rispettivamente dagli enti pubblici e dalle associazioni di categoria. Anzi: «Nel ’68, quando decidemmo di fare entrare in Fiera anche Coldiretti, Api, Agricoltori e Cna, con la modifica di statuto messa a punto da me e l’altro vicepresidente Ferretto – racconta Fina, rispondendo così indirettamente ad alcune osservazioni scritte nero su bianco – le mostre orafe e il salone della ceramica, poi scippatoci da Milano, permettevano di avere utili e quindi patrimonio, decidemmo di eliminare quella quota ‘una tantum’ di 100 mila lire prevista dai precedenti statuti, proprio perché erano cifre che non avevano nessun rilievo dal punto di vista del patrimonio della Fiera stessa rispetto alle partecipazioni che tutti i soci stessi attivavano con le riserve costituite, e costituite anche successivamente, con le eccedenze nette di bilancio». Insomma, basarsi su quelle quote iniziali per calcolare la spartizione di azioni è inutile, sostiene Fina. Quanto poi al fatto che gli arbitri decidano di spartire le azioni della ‘spa’ solo tra i tre enti pubblici perché già lo statuto attuale prevede che solo ai tre enti spetti il patrimonio in caso di scioglimento dell’ente, Fina sottolinea «non siamo di fronte a uno scioglimento, ma a una trasformazione». Insomma, l’arbitrato non va. Ma piuttosto che andare allo scontro in giudizio d’appello, conclude Fina, si può anche riazzerare la questione. Partendo da due presupposti. Primo, non è un obbligo di legge trasformare la Fiera in una ‘spa’: «la legge lascia una certa discrezionalità nella trasformazione dell’ente». Secondo, va recuperato il connubio vincente pubblico-privato: «C’è una crisi di mercato, c’è il rischio che Milano e altri concorrenti ci facciano una forte concorrenza. L’unica strada – conclude – è recuperare un accordo tra enti pubblici e categorie economiche.