
Fiera delle ipocrisie sulla legge Biagi
DI MICHELE TIRABOSCHI
Abrogare la legge Biagi? Rassegniamoci sin da ora. Quella che sembra essere poco più di una provocazione diventerà, ben presto, uno dei principali leitmotiv che caratterizzeranno, di qui ai prossimi mesi, la lunga volata che ci porterà alle elezioni politiche. È già successo in Germania e Norvegia, dove il confronto elettorale delle settimane passate è stato polarizzato dalle riforme di mercato del lavoro e dal problema della disoccupazione.
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E lo sarà a maggior ragione in Italia, dove non sono neppure bastati i dati, più che positivi, sull’occupazione per portare un po’ di tregua sulla riforma Biagi.
Siamo l’unico Paese che registra, da quasi quattro anni, un costante incremento dei tassi di occupazione regolare e una significativa contrazione del lavoro precario. Lo stesso tasso di disoccupazione è drasticamente sceso al 7,5 per cento. Ben al di sotto della media europea, e di gran lunga meglio rispetto a quanto avviene in Paesi come Francia, Spagna e Germania. Eppure i significativi sforzi compiuti sulla strada della modernizzazione del mercato del lavoro, in una chiara linea di continuità tra pacchetto Treu e legge Biagi (come ben sanno gli addetti ai lavori), stentano ad essere riconosciuti. Quasi si rimpiangesse, per mere convenienze politiche o pregiudiziali ideologiche, quello che sino a pochi anni fa veniva considerato dalla Ue il peggiore mercato del lavoro in Europa.
Nelle dinamiche, invero mai limpide, del confronto politico e sindacale il merito stenta in ogni caso ad emergere. E poco o nulla importa se, pur con alcune difficoltà e rilevanti contraddizioni, la legge Biagi ha consentito di rendere più effettive e fluide le regole che governano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Al di là di quanto di positivo emerge dalle rilevazioni statistiche ha, dunque, certamente senso porsi il problema, tutto politico, dell’abrogazione di una legge divenuta suo malgrado il simbolo della precarietà e della mercificazione del lavoro.
Ma è davvero possibile, anche ammesso che si presentino a breve le condizioni politiche, abrogare la legge Biagi e i relativi decreti di attuazione? Chi ne abbia seguito in questi anni il complesso e laborioso processo di implementazione può affermare che la legge Biagi si è a tal punto radicata nel nostro ordinamento che difficilmente potrà essere smantellata da una diversa coalizione di governo. Per cambiare registro non saranno certamente sufficienti le fatidiche tre parole del legislatore. La conferma di ciò viene dal fatto che, paradossalmente, nella completa inerzia delle Regioni della maggioranza, sono state proprio le Regioni del centro-sinistra a dare piena e tempestiva attuazione alla legge Biagi. Cancellarla significherebbe, in altre parole, abrogare svariate normative regionali, altrettanto corpose e incisive, che toccano tutti i profili centrali del nostro mercato del lavoro, a partire dall’organizzazione e disciplina dei servizi per l’impiego sino ai contratti di apprendistato che rappresentano il principale canale di contrasto del precariato e di sostegno dell’occupazione giovanile.
Si tratterebbe di un clamoroso passo indietro che, pur con tutte le cautele del caso, pare davvero difficile ipotizzare. E, a ben vedere, che il giudizio sostanziale sulla legge Biagi possa cambiare, non appena si passi da una posizione di contestazione a un ruolo istituzionale e di responsabilità di governo, lo dimostra ora quanto fatto a Bologna da uno degli oppositori della prima ora della legge. Nessuno lo ha ancora fatto notare. Ma, nell’imporre la modalità cosiddetta "a progetto" della Biagi alle collaborazioni coordinate continuative attivate dal comune di Bologna, Sergio Cofferati si è spinto ben oltre estendendone il campo di applicazione, per mero accordo sindacale, persino alle pubbliche amministrazioni che pure formalmente risulterebbero escluse. Una conferma della bontà di talune intuizioni contenute nella legge Biagi su cui vale la pena di insistere. Trattandosi di una legge sperimentale sarebbe del resto controproducente qualunque modifica, anche per quanti ne hanno ingiustamente fatto il simbolo della precarietà, prima di averne potuto verificare sul campo gli effetti sul nostro mercato del lavoro.
MICHELE TIRABOSCHI
Tiraboschi@unimore.it