
Doppia sfida per la ceramica made in Italy
Come Davide che combatte contro Golia, la ceramica italiana è impegnata in una doppia sfida per accrescere la sua competitività. Da un lato, il comparto prova a rintuzzare l’attacco scorretto dei produttori cinesi, che stanno invadendo il mercato europeo con prodotti “svenduti” a prezzi molto al di sotto del loro valore. Dall’altro, ha ingaggiato una sfida a se stesso, andando in cerca di una più efficace organizzazione del lavoro, che consenta di gestire con elasticità picchi di produzione e portare a una riduzione dei costi. E Cersaie, da domani presso la Fiera di Bologna sino al 2 ottobre, sarà un banco di prova importante relativamente alla vitalità del settore ceramico nazionale.
La campagna contro il dumping cinese è partita a fine giugno, con una denuncia presentata a Bruxelles da parte della federazione europea dei produttori di piastrelle di ceramica (Cet). La distorsione operata sul mercato comunitario – un ghiotto boccone da 8 miliardi di euro – da parte delle ceramiche cinesi parrebbe evidente: l’impennata delle importazioni di piastrelle cinesi, cresciute in valore di svariate volte dal 2003 – in un momento in cui il mercato delle ceramiche nel Vecchio continente è declinato – sarebbe legata a strategie non regolari. Ciò che si fa fatica a comprendere è, ad esempio, il fatto che i cinesi hanno venduto in Europa non solo con prezzi bassissimi, ma addirittura calanti: dai 5,1 euro al metro quadrato del 2005 ai 4,4 euro del 2009.
«Con prezzi delle materie prime in aumento – spiega Alfonso Panzani, presidente del Cet – e prezzi del gas alti anche per i cinesi, a cui si aggiungono spese per la manodopera in crescita, risulta difficile pensare che si tratti del risultato di azioni migliorative sul lato dei costi di produzione. È chiaro che si tratta di un comportamento scorretto che le imprese europee, e non solo italiane, hanno voluto denunciare».
A seguito della denuncia, Bruxelles ha aperto un’inchiesta antidumping, formalizzato dalla pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea».
«La commissione europea – prosegue Panzani – sta portando avanti l’iter, che prevede confronti sulle vendite di prodotti cinesi su altri mercati e sui prezzi praticati da altri produttori in quegli stessi paesi. Aspettiamo una risposta da Bruxelles entro la primavera del prossimo anno, e contiamo che la nostra richiesta venga accolta: con il conseguente aumento dei dazi praticati sui prodotti cinesi, riteniamo si possa raggiungere un maggiore equilibrio, tenendo comunque conto del fatto che, comunque, le nostre esportazioni verso la Cina scontano alti dazi e per i quali vengono richieste certificazioni, che talvolta appaiono strumentali». Fondamentale, comunque, sarà il sostegno politico dell’Ue per dare vigore a questa richiesta di equità, nei confronti di un Paese sempre più forte anche a livello politico. «Stiamo combattendo anche affinché divenga obbligatorio dichiarare la provenienza della merce. Sono due battaglie che ultimamente, vista anche la crisi, hanno registrato una maggiore attenzione da parte della politica europea».
La maggiore competitività, però, non dipende solo dagli scenari internazionali. Il futuro della ceramica made in Italy si gioca anche dentro alle fabbriche. Nessuna “ricetta Marchionne”; le imprese chiedono, in sede di negoziazione del nuovo contratto di lavoro – il precedente è scaduto a giugno – maggiore elasticità. «Per certe lavorazioni a ciclo continuo – spiega Enzo Mularoni, presidente della commissione Relazioni industriali di Confindustria ceramica – abbiamo turni di 33 ore a settimana. L’aumento delle ore di lavoro non è sul tavolo, quello che ci preme è che sia per l’impresa possibile gestire con più semplicità i turni, adeguandoli a quelle che sono le esigenze produttive, rispettando le regole vigenti. Oggi, per fare cambiamenti, occorre un accordo con i sindacati, il che comporta tempi lunghi e contropartite. Un doppio problema, che incide sulla produttività e sui costi».
Un obiettivo semplice solo sulla carta, viste le resistenze della Cgil. «È però fondamentale, perché consente di recuperare qualche margine di manovra», prosegue Mularoni. «Così come arrivare ad aumenti salariali che tengano conto sì dell’aumento del costo della vita, ma che non eccedano: si deve capire che oggi la situazione è difficile, e che presto i nodi potrebbero venire al pettine: gli ammortizzatori sociali sono agli sgoccioli e, se il calo delle vendite diverrà strutturale, si porrà la questione degli esuberi. In questo contesto, è necessario buon senso da parte di tutti».
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