Rassegna stampa

“Dinamismo” di un Crystal Palace contemporaneo

É tutta d’acciaio, l’onda nuova dell’architettura italiana: un’onda “anomala” che con i 1.300 metri del suo profilo a dorso di drago ha radicalmente ridisegnato lo skyline industriale della periferia milanese, trasformando l’area delle ex-raffinerie di Rho-Pero nel polo pulsante della ripresa italiana. Nel disegnarla, Massimiliano Fuksas l’ha immaginata come una “vela”: un nastro trasparente largo 32 metri che si impenna sino a 42 metri nella “pinna” al di sopra del centro servizi, accompagnando per tutta la sua lunghezza il “rettifilo” che collega la Porta Est e la Porta Ovest. Un “decumano”, insomma, che con la forma perentoria della sua sinuosa ondulazione contrassegna l’urbanistica essenziale di questa singolare città di nuova fondazione, espressione significativa della civiltà di transizione che sta accompagnando anche in Italia il tumultuoso e contraddittorio trapasso tra l’epoca della meccanizzazione e l’era dell’informatica.
Eppure, tra i tanti primati che hanno scandito la retorica della “grande opera” dalla posa della prima pietra – il 6 ottobre 2002 – all’inaugurazione, è passato in secondo piano quello relativo alla qualità della trasformazione nel più generale quadro delle riconversioni delle brown areas dell’hinterland industriale. Se dal punto di vista quantitativo infatti il caso milanese ha acceso il motore delle great expectations, prospettando il volto nuovo di una metropoli policentrica ridisegnata nel l’hardware delle sue nuove funzioni di scambio, la massa dei risultati sinora ottenuti non sembra aver raggiunto il valore critico di una reale mutazione di rotta, configurandosi più come una forma di ricapitalizzazione del valore fondiario delle ex-aree produttive che come strumento di riformulazione innovativa della macchina metropolitana. Limitandosi al ridesign della carrozzeria più che alla riprogettazione delle infrastrutture in rapporto ai grandi assi produttivi del territorio, la politica delle aree dismesse sta rivelando nella maggior parte dei casi il volto di una cosmesi finanziaria più che di un aggiustamento di rotta del destino di Milano.
Proiettata nello scenario europeo dei mercati espositivi, la nuova Fiera di Rho-Pero indica chiaramente la vocazione della città a uscire dai suoi tradizionali confini, innescando col territorio e la grande rete delle infrastrutture polarizzata dal l’hub della Malpensa, un circolo virtuoso per alleggerire l’ossatura cittadina di carichi indebiti e potenziare l’interscambio con la città diffusa del cosiddetto “capitalismo molecolare” padano.
Ai grandi e piccoli ingegni del “made in Italy” è dedicato il monumento tecnologico del Nuovo Polo, che rilancia l’arte italiana di costruire città e riprende le fila di un discorso interrotto che trova il suo punto d’origine nel mancato progetto della “città degli scambi” del 1938, che Giuseppe Pagano aveva allora indicato come l’unica possibilità di realizzare alle soglie di Milano un complesso urbanistico “grandioso, ordinato, organico e soprattutto contemporaneo”. Nonostante l’apparente complessità visiva di superfici e volumi, il layout della cittadella delle merci risponde infatti a un preciso criterio di chiarezza d’orientamento e razionalità di distribuzione: otto padiglioni – due a un solo piano, due biplanari e altri due ad altezza variabile – si dispongono a pettine come tasselli di un’ordinata scacchiera servita per tutta la sua lunghezza da un mall pedonale.
Oltre a costituire un gesto plastico, la grande vela è in realtà l’ardita copertura di un chilometrico asse di accesso a due livelli: uno a quota del terreno, riservato ai visitatori, con accesso diretto ai padiglioni; e uno a sei metri dal suolo che consente l’attraversamento dell’intero complesso con accesso ai servizi di ristoro e di informazioni, alle sale riunioni e agli uffici. É la città a livelli sovrapposti servita da una scenografica promenade architecturale, sognata da Terragni e da Bottoni nel progetto irrealizzato per la prima delocalizzazione della vecchia Fiera dal quadrilatero del Sempione.
Ma non è questo il suo unico filo con la storia, visto che già nell’enfasi pubblicitaria del cantiere più grande d’Europa è possibile cogliere un’eco della “madre di tutte le Fiere”: il Crystal Palace di Londra, eretto ad Hyde Park per ospitare la prima Esposizione Universale nel 1851. La mitica “serra” dedicata ai “fiori” industriali del secolo nuovo – le merci – segnò il record assoluto di una struttura che era al tempo stesso celebrazione della macchina e parco di divertimenti. Il Crystal Palace rimane ancora oggi icona della prima età dell’industria per le sue caratteristiche volte trasparenti, come una pelle fatta di una miriade di frammenti vetrosi. Di queste squame prodigiose, la “vela” di Fuksas porta evidente memoria, anche se naturalmente ne volge l’originale impaccio meccanico nel sinuoso svolgimento organico di circa 150mila pezzi ordinati in un montaggio di elevata precisione. Riformulando la tradizione ingegneristica moderna delle cupole geodetiche di Buckmister Fuller, Fuksas ne propone una versione in linea con la sua naturale propensione artistica a un organicismo astratto, bene espresso anche in altri progetti, come la “nuvola” del Centro Congressi Italia a Roma e le “bolle” della Nardini a Bassano del Grappa.
Artista plastico attratto dalla dinamica del colore e della materia, l’architetto romano, tornato in Italia dopo il lungo ma fortunato esilio in Francia, è tuttavia spasmodicamente convinto che Dio è nel dettaglio e che spesso la differenza tra una buona e una cattiva architettura si può misurare nei centimetri dei suoi spessori. Fuksas ha rilanciato anche da noi il tema dell’edilizia pubblica come orgoglio della città, costruendo con la “fabbrica estetica” di Rho-Pero una delle rare “memorabilia”, insieme all’Auditorium romano di Piano, dell’architettura contemporanea italiana.

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