
Dimensioni ed export le strade per ripartire
Espansione nei nuovi mercati e crescita dimensionale per superare la crisi. È la ricetta seguita da Confindustria Emilia Romagna che martedì prossimo si riunisce a Bologna per eleggere il successore di Anna Maria Artoni. In vista dell’assemblea, che sarà anche l’occasione per presentare un’indagine sugli investimenti industriali delle imprese della regione, Anna Maria Artoni fa il bilancio della sua presidenza, «un periodo difficile, iniziato nel 2005, in una fase di crescita caratterizzata da grossi investimenti e da una forte capacità di penetrazione dei mercati internazionali.
Poi però è arrivata la crisi…
Sì, ed è stata profondissima. Una fase molto complessa in cui l’obiettivo era aiutare le imprese a tenere i motori accesi perché in un sistema a filiera, basta che poche imprese chiudano e tutto il sistema rischia di crollare.
Quali sono state le azioni concrete?
Abbiamo lavorato molto con la Regione, con un patto sociale che ha tenuto molto bene. Abbiamo agito su due livelli. Prima di tutto sulla quotidianità, per la sopravvivenza delle imprese e il sostegno ai lavoratori. Parlo dei consorzi di garanzia per far arrivare più credito alle imprese, della riqualificazione dei lavoratori e degli ammortizzatori sociali in deroga. L’altra linea d’azione guardava al medio termine, con interventi per favorire l’internazionalizzazione, le reti d’impresa e tenere alta l’attenzione su ricerca e formazione. Per avvicinare le università alle imprese e per usare meglio le risorse anche intellettuali abbiamo costituito nove “tecnopoli” modellati sulle caratteristiche dei territori, dalla meccatronica alla sostenibilità.
Il suo mandato si è caratterizzato anche per le aggregazioni dei servizi alle imprese forniti dalle territoriali di Confindustria.
Abbiamo cercato un ruolo di coordinamento, non di sovrapposizione, con le associazioni territoriali per dare più servizi alle imprese senza ridondanze e con dimensioni adeguate. Alla fine credo che sia stato un buon lavoro. Ha iniziato la Romagna dove le associazioni sono più piccole, con il Consorzio Fidi, un primo passo sulla strada delle aggregazioni senza perdere il radicamento territoriale, che ha portato poi a Fidi Industria regionale.
Come è cambiato in questi anni e soprattutto con la crisi il “modello emiliano”?
Quando ho iniziato la regione era molto dinamica ma lenta a cambiare. Dare un’accelerazione è stato il mio pallino, puntando su internazionalizzazione e ricerca, due leve che hanno spinto le imprese a mettersi insieme, anche con le reti d’impresa. E oggi i distretti non sono più così “stretti”, le filiere si sono allungate. Ma non basta. Bisogna continuare a spingere sull’apertura ai mercati internazionali che danno un ritorno più immediato sugli investimenti. L’accelerazione c’è stata anche nell’economia della conoscenza. I bandi regionali hanno innescato un cambiamento culturale. Siamo la prima regione per brevetti procapite.
All’uscita dalla crisi il quadro è tutto positivo?
Purtroppo no. Nonostante gli sforzi non tutti ce l’hanno fatta. La dimensione aziendale è un problema. I più piccoli si concentrano molto sul prodotto e non curano la solidità patrimoniale. Sono stati i primi a pagare gli effetti della crisi. Quando chiudono non fanno rumore ma quando te ne accorgi è troppo tardi. Oggi uno dei freni della ripresa è non ritrovare più i vecchi fornitori.
E la domanda va all’estero…
Esatto. La prova è nell’aumento delle importazioni di beni intermedi. E così la ripresa rellenta ancora di più.
Cosa si può fare per superare il limite dimensionale?
Eliminare tutti i fattori che rendono conveniente per le imprese rimanere piccole. E poi, insisto, bisogna favorire l’internazionalizzazione. Le reti d’impresa sono una strada. Per esempio anche con un rating finanziario che tenga conto la partecipazione ad una rete.
L’Emilia Romagna è in una posizione nevralgica per la logistica del paese. Le infrastrutture però sono incomplete e in alcuni casi, come gli aeroporti e le fiere, troppo frammentate sul territorio. Cosa ha fatto nel suo mandato?
Mette il dito nella piaga. In tempi di risorse scarse bisogna concentrare gli sforzi. Quattro aeroporti più qualche campo volo o una fiera per ogni città non servono. Era un’opportunità ma è stata anche una della maggiori difficoltà che ho dovuto affrontare. C’è troppa resistenza nei localismi. Non possiamo più avere tutto dappertutto. Con i tagli alla spesa degli enti locali sarà necessario decidere su cosa concentrarsi, rinunciando a qualcosa per avere altro, per esempio il passante di Bologna, un’opera relativamente piccola che eliminerebbe una strozzatura nazionale. Le infrastrutture sono la priorità dei prossimi anni ed è bene che siamo noi a decidere prima che lo faccia qualcun altro.
Cosa pensa della contrapposizione tra imprese grandi e piccole che di tanto in tanto riaffiora in Confindustria?
Non abbiamo imprese grandissime, del rango di Fiat per intenderci. In ogni caso è un falso problema perché ciò che va bene per le imprese, va bene per le grandi e per le piccole. La questione è piuttosto che il paese non ha un numero sufficiente di grandi imprese capaci di trascinare le altre. Per questo, come è emerso alle Assise di Bergamo, serve un progetto-paese che dica cosa si vuol fare del sistema manifatturiero italiano. Scontrarsi non porta a nulla.
E cosa pensa della vicenda Parmalat?
Il mercato è mercato. Le aziende non hanno valore se non sono contendibili. Ma a patto che ci sia reciprocità.
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