
Deboli nell’accesso ai mercati
Massimo Agostini
VERONA
Piccole, polverizzate, ma anche competitive e ad alto valore aggiunto. Capaci di organizzare i fattori della produzione in base a obiettivi di efficienza tecnico-economica, ma anche frenate da problemi di vendita dei prodotti, burocrazia e manodopera. Le imprese agricole in Italia presentano diverse sfaccettature. Con alcuni punti di forza e di criticità che il Rapporto Nomisma sulla competitività, promosso da Confagricoltura, evidenzia tenendo conto dei nuovi scenari di mercato, comunitari e internazionali.
La ricerca, condotta su un campione rappresentativo di circa 14mila imprese e di cui ieri sono stati presentati i primi risultati alla Fieragricola di Verona (aperta fino a domani), parte dal gap dimensionale nel contesto europeo. «Parliamo di imprese piccole – ha spiegato l’amministratore delegato di Nomisma, Giorgio De Rita – con una superficie agricola utilizzabile media di poco superiore ai sette ettari, a fronte dei 23 ettari di quelle attive in Spagna, 43 in Germania, 48 in Francia». Però si tratta di «aziende con una produttività media di oltre 2mila euro per ettaro, doppia rispetto a quella europea, e un valore aggiunto per unità di lavoro pari a 18mila euro, contro una media Ue di 11mila».
Certo, ha evidenziato il coordinatore dell’area agroalimentare della società bolognese, Denis Pantini, «le imprese a conduzione familiare, di dimensioni medio-piccole e con performance che in molti casi sfiorano la marginalità tecnico-economica, rappresentano ancora il 71% del totale». Per tutte le tipologie di aziende il primo problema resta comunque quello dell’accesso al mercato. Oltre il 60% delle aziende oggetto dell’indagine, infatti, indica che «l’incapacità di andare oltre il mercato locale e la delega a terzi della propria produzione» sono i fattori che più di altri pesano su un’adeguata collocazione e remunerazione dei prodotti.
Tra gli aspetti evidenziati dalla ricerca c’è anche l’aumento della quota mondiale dell’Italia nell’export agroalimentare – dal 2,8% al 3,1% negli ultimi dieci anni, che la collocano al 10° posto nel rank mondiale dei Paesi esportatori – favorito dalla crescita degli standard di qualità dei prodotti. Anche se poi il made in Italy sconta la minore competitività in settori strategici, come quello del vino e dell’ortofrutta.
Tra i grandi limiti della nostra agricoltura, come ha sottolineato il presidente di Confagricoltura, Federico Vecchioni, non vanno comunque dimenticati l’eccessivo numero di aziende agricole – «oltre un milione e mezzo, trainate da una minoranza di 300-350mila» – e da «una rappresentanza d’impresa frammentata». Da qui la proposta di «una federazione nazionale di imprese che dia indicazioni chiare al mondo politico e che sia legittimata a produrre e ridistribuire ricchezza».
Il messaggio è stato colto dal presidente del Senato, Franco Marini, intervenuto al convegno, che ha esortato a «superare la frammentazione, costruire coesione e omogeneità di alleanze, assicurare stabilità». E visto che «l’agricoltura italiana è uno dei pilastri forti del Paese», ha aggiunto Marini, è necessario «accrescere l’integrazione fra le politiche agricole e altri settori strategici, come il turismo, il commercio e l’ambiente».