
Cantori del bene pubblico
di Giulio Busi
«Non fa ridere. Magari sarà divertente in Svizzera, ma qui ci sparano addosso e abbiamo le nostre priorità. Riprova quando ci sarà la pace in Medio Oriente». Così si è sentito rispondere Etgar Keret, quando ha proposto una storia satirica sul proprio cane.
In un Paese perennemente sotto stress, nemmeno la letteratura si sottrae alla legge dell’emergenza, per così dire, terapeutica. Bisogna che funzioni, comunichi, magari innervosisca ancora di più, ma di parole-placebo in Israele non sembra accontentarsi nessuno. Servono, invece, pillole per fronteggiare l’ansia, chiamandola col proprio nome.
Non che Keret, autore simbolo del postmoderno israeliano, abbia cambiato il proprio modo di scrivere, eppure anche lui pare in qualche modo accettare la critica, e insiste nel chiamare gli altri a testimoni del senso, o del non-senso, di un universo da ricomporre.
L’uso, e forse abuso collettivo di pagine stampate è uno dei segreti del successo mondiale della letteratura israeliana. Da un bacino linguistico di pochi milioni di persone è sgorgata, finora, una quantità sorprendente di proposte espressive. Non c’è da stupirsi che l’Europa annoiata e un po’ fifona di oggi guardi con malcelata invidia, se non alle infinite grane che travagliano lo Stato ebraico, di certo alla creatività degli autori israeliani. La verità è che lo scrittore qui riveste ancora, in qualche modo, i panni dell’aedo. Ha insomma una funzione pubblica, come se intrecciare frasi e coniugare verbi potesse davvero aiutare l’utopia mezza vera, mezza sognata e mezza in frantumi del Paese.
Certo, dai padri fondatori, che celebravano l’ideale sionista, ai ragazzi cresciuti troppo in fretta delle ultime generazioni, disincantati e chiusi nel bozzolo del loro slang, di differenza ce ne passa. La scelta della Fiera del Libro di Torino di presentare per età anagrafica anche la storia recente della letteratura israeliana aiuta a capire.
Tra il mondo dei grandi testimoni come Aharon Appelfeld, che fu sradicato dall’Europa, e quello di Abraham Yehoshua, di poco più giovane, ma nato a Gerusalemme, si coglie già un primo profondo mutare delle metafore, dei fuochi espressivi e delle cadenze psicologiche. Appelfeld – che aprirà la rassegna di Torino – esprime essenzialmente il dramma della Shoah, Yehoshua, invece, è cantore di un Israele indipendente e consapevole.
Al salone non saranno presenti Amos Oz e David Grossman che, assieme a Yehoshua, costituiscono una triade letteraria di "maggiori", diventata, per la verità, negli ultimi tempi un po’ statica e stereotipa. Ci sarà invece Sami Michael, nato nel 1926 a Baghdad, ma giunto al romanzo solo nel 1974, dopo un lungo processo di appropriazione dell’identità israeliana.
In anni recenti, risultati persuasivi sono venuti soprattutto dal lirismo introverso di Meir Shalev, classe 1948, ma anche da scrittrici come Savyon Liebrecht (1948), Zeruya Shalev (1959), e Lizzie Doron (1953), questa molto amata nei paesi di lingua tedesca. Stilisticamente più aggressivi sono Etgar Keret (1967), con il suo minimalismo "post-adolescenziale", e Orly Castel-Bloom (1960), con la sua scrittura "post-femminile".
Un discorso a parte merita Ron Leshem, di appena trentadue anni, che, nell’epopea negativa sul castello crociato di Beaufort occupato dai militari israeliani, ha tentato un canto di guerra amaramente disilluso. Per lui, la critica ha addirittura invocato, un po’ a sproposito, i precedenti di Remarque ed Hemingway.
E proprio le ultime prove, in cui tutto è emozione e disagio, e ben poco resta della vecchia prosa carica di nostalgie e allusioni colte, spingono a chiedersi in che direzione si svilupperà il fenomeno letterario israeliano. Avrà un futuro irriverente? Si allontanerà, con uno scarto imprevedibile, dalle proprie radici? A ogni modo, Keret e gli altri possono stare tranquilli. La Svizzera è ancora molto lontana.