Rassegna stampa

Alla fiera della creatività

Da qualche anno, un fantasma si aggira per le aziende. È la creatività: magica soluzione di tutti i mali, mantra dei futurologi e dei direttori delle risorse umane. Nell’economia della conoscenza, si dice, il valore aggiunto viene dalla creatività dei singoli e dei gruppi; il lavoro non è più un’attività meccanica finalizzata al raggiungimento di uno scopo, bensì un’occasione di espressione individuale, nel l’ambito della quale l’aspetto volgarmente transattivo (lavoro contro retribuzione) passa quasi in secondo piano. Perché lo scopo delle aziende diventa quello di scatenare le energie creative dei dipendenti, perché si accresce il numero degli analisti simbolici nomadi, che saltano da un lavoro all’altro o si mettono in proprio, inseguendo le loro passioni e trasformandole in un’attività redditizia.

Nulla di male, si dirà. Tanto di guadagnato, anzi, se si allarga anche da noi la cerchia di coloro che puntano, almeno a parole, sull’economia della conoscenza. Il problema, però, è che le parole sono pietre. E che non andrebbero pronunciate quando non sono supportate dalla realtà. Ciò che per alcuni, dal palco, è solo un vuoto esercizio retorico, per altri, seduti in platea, può diventare un articolo di fede, sul quale costruire progetti e aspettative. E se poi queste aspettative si scontrano con una realtà che è distante anni luce da quella raffigurata nelle aule dei convegni e sulle pagine dei giornali, sono dolori.

Avete idea di quanti siano, oggi, i giovani frustrati, cresciuti con la convinzione che la società dell’informazione desse loro diritto a un lavoro "creativo", per poi ritrovarsi 10 ore al giorno in un call center di prodotti surgelati?

Lo ha ben descritto, nel suo romanzo (Occidente per principianti, Einaudi), Nicola Lagioia, questo «Quarto Stato fatto di giovani spiantati tutti esperti di cinema, di sport, di politica, di letteratura, con le pareti tappezzate di inservibili attestati di frequenza, i cassetti pieni di curricula, sceneggiature, lettere di presentazione». Tutti viziati figli di papà? Può darsi. E però bisognerà porsi, prima o poi, il problema delle tante felicità possibili sacrificate sull’altare di questa fantomatica creatività.

È il grande dramma di un’intera generazione, quello delle aspettative creative deluse. Al contrario dei loro padri, i giovani di oggi sono nati per fare i registi, gli scrittori, gli artisti. O, come minimo, i grafici, gli stilisti, i giornalisti. Come si fa ad aspettarsi che, finiti gli studi, si vadano a intruppare negli uffici e negli stabilimenti come i loro nonni negli anni Cinquanta?

I dati pubblicati sul Sole-24 Ore (4 novembre) parlano chiaro: continua il boom della facoltà di Scienze della comunicazione. Sembra che siano ormai 70mila gli iscritti al corso di laurea più amato dalle matricole. Non è una questione solo italiana, del resto. Negli Stati Uniti, una recente indagine ha svelato che la facoltà universitaria che ha fatto registrare i tassi di sviluppo più elevati, in termini di nuove iscrizioni, è quella di "scrittura creativa". E per quanto lì esista davvero un’economia della conoscenza bisognosa di analisti simbolici e di copywriter, risulta pur sempre difficile immaginare che tutti questi Hemingway in erba riescano a dare uno sbocco alle loro ambizioni letterarie.

E allora, forse vale la pena di far fare un passo indietro alla retorica aziendale, per provare a dare una rappresentazione un po’ più veritiera della realtà. Perché non dirlo che il lavoro è prima di tutto un’attività retribuita, che richiede sacrifici in cambio della possibilità di mantenere sé e i propri cari? Perché non ammettere che la priorità delle aziende è il profitto, e solo in via subordinata l’appagamento dei propri dipendenti? Non c’è proprio nulla di male. È così da sempre, e chi è nato negli anni Settanta e Ottanta è de-ideologizzato abbastanza da poter fare i conti con la verità nuda e cruda.

Dopodiché, andarci piano con la retorica della creatività non significa affatto rinunciare all’obiettivo, quello sì pienamente ragionevole, di responsabilizzare e dare sempre più autonomia ai propri dipendenti. Né con quello di spostare gradualmente il peso degli investimenti verso la componente immateriale, quella sì "creativa", dei processi di produzione. Il punto è solo di non accreditare l’illusione che il lavoro possa davvero trasformarsi in un gioco, facendo scomparire dall’orizzonte la dimensione dello sforzo e del l’impegno, talvolta anche gravoso. Soprattutto in un Paese che, come ci hanno ricordato in una recente ricerca Richard Florida e Irene Tinagli, si piazza al terz’ultimo posto in Europa per incidenza di lavori "creativi" sul totale degli occupati.

In ogni caso, poi, vale la pena di non dimenticare la lezione di Tonio Kröger, il giovane pittore protagonista dell’omonimo romanzo di Thomas Mann, che suggeriva ai suoi colleghi di vestirsi di grigio, perché chi ha il caos creativo dentro di sé deve sempre proiettare all’esterno un’apparenza di ordine. È un buon consiglio anche per le aziende.

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