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TERRA FUTURA – OCSE: ITALIA AGLI ULTIMI POSTI PER LIVELLO DI BENESSERE “TORNARE A ESSERE FELICI NEL LAVORO”

Firenze, 27 maggio 2012 – Il problema in Italia non è solo l’emergenza occupazione, ma anche che la dimensione del benessere è da troppo tempo avulsa dal lavoro. Il messaggio, forte e chiaro, è stato lanciato da questa terza giornata di Terra Futura (www.terrafutura.it), mostra convegno delle buone pratiche di sostenibilità ambientale, economica e sociale, che si chiude oggi alla Fortezza Da Basso di Firenze.
Gli ultimi dati Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico) collocano il Belpaese al ventiduesimo posto nella classifica su 36, per il livello di benessere misurato su venti indicatori in undici categorie, fra cui soddisfazione nei confronti della propria vita, equilibrio lavoro-famiglia, ambiente, sicurezza, salute, educazione…
Una classificazione che finalmente supera il parametro del Pil come unico metro per la misura della qualità della vita. Il prodotto interno lordo – come da più parti da anni si sta sottolineando con forza – esclude infatti elementi chiave relativi non solo al benessere personale di un individuo, ma anche al suo appartenere alla comunità.
Un’incompletezza che si palesa in tutta la sua chiarezza, soprattutto nella dimensione del lavoro. «La separazione fra benessere e lavoro non è attribuibile e cause ontologiche, e non è sempre esistita» ha spiegato l’economista Luigino Bruni. «Siamo convinti che il dibattito sulla felicità possa “iniziare” solo una volta finite le ore di lavoro, confinando così nel tempo libero elementi importantissimi della nostra esistenza quali la qualità dei rapporti amicali, la famiglia, i beni relazionali. Dobbiamo liberarci da questo vizio di fondo per riuscire a reimmaginarci una vita lavorativa che funzioni, in cui siamo felici». Ma come si misura il benessere lavorativo, oggi, in tempo di crisi? Per farlo, occorre tornare indietro nel tempo, all’«antica verità» secondo cui la motivazione del lavoro è intrinseca al lavoro stesso: «L’idea per cui si lavora bene solo e se in quanto pagati, un concetto tipicamente economico che nasce nel Novecento – ha continuato Bruni -, sta deteriorando la cultura delle professioni e dei mestieri con cui è stata costruita l’Europa. La remunerazione è importante, ma non è la motivazione, si tratta di due piani diversi. Dobbiamo tornare all’etica della virtù del lavoro, riscoprirne la vocazione intrinseca».
Bruni ha infine puntualizzato che il Pil nasce nel Settecento intorno all’idea che siano i flussi a misurare la ricchezza e non gli stock, e che conti dunque la capacità di generare reddito e non i capitali. Ancora una volta, la direzione da percorrere è quella di un viaggio indietro nel tempo, a oltre tre secoli fa, per tornare a misurare i patrimoni che sono stati pesantemente intaccati e in gran parte distrutti dalla ricerca dei flussi finanziari e di profitto, a partire dal capitale sociale e civile».
 
La crisi può essere una grande opportunità per ridisegnare le priorità del Paese, secondo Cecilia Brighi, responsabile rapporti internazionali Cisl: «Bisogna interrompere la logica del rigore e dell’austerità e passare a programmi che rimettano al centro il benessere delle persone. In questo quadro, il lavoro che ha fatto anche l’Ocse sull’indice di benessere che superi il Pil è un buon inizio ma non basta». Tre gli strumenti prioritari, secondo Brighi, per produrre lavoro di qualità che restituisca dignità alle persone: «Uno: regolamentazione ferrea dei mercati finanziari e del mondo produttivo, che incida in particolare sulla polverizzazione e sulla corruzione che interessa numerose multinazionali. Due: eurobond. Infine, è necessario ridefinire i piani strategici, perché mettano in campo risorse del fondo monetario internazionale».

In tempo di globalizzazione non ci si può limitare a parlare di benessere e occupazione riferendosi a singoli stati, ma occorre considerare lo scenario mondiale. Lo ha puntualizzato Esther Guluma, neoeletta presidente di Fairtrade International, ricordano come la povertà nei Paesi in via di sviluppo e nel terzo mondo abbia un impatto anche sull’Italia, che lo si voglia oppure no: «Il commercio equo è una delle alternative alla povertà e contribuisce al benessere di molti contadini e lavoratori, migliorando il livello di salari e il rispetto dei diritti umani delle economie meno sviluppate». I consumatori italiani possono contribuire in maniera importante al benessere di queste persone, acquistando prodotti certificati Fairtrade: «Sostenendo il commercio equo, si innesta un circolo vizioso che permette ai lavoratori dei Pvs di rimanere nei loro Paesi, limitando migrazioni di massa alla ricerca di lavoro in un Europa in piena emergenza occupazione».

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