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CREMONA ITALPIG, PRIMI STATI GENERALI DELLA SUINICOLTURA: DIVERSIFICARE LA PRODUZIONE PER CONTRASTARE LA CRISI?

Per salvare la suinicoltura italiana occorrono strumenti e soprattutto politiche nuove, capaci di adeguarsi in tempi rapidi ai cambiamenti che in pochi anni sono avvenuti. Se su cento prosciutti venduti sul mercato italiano, solamente una ventina appartengono al circuito tutelato delle dop bisogna chiedersi perché e avviare una profonda riflessione.
Agli Stati generali della suinicoltura che a Italpig (Cremona, 28-31 ottobre) hanno avuto questa mattina il loro battesimo ufficiale, la numerosa platea che vi ha preso parte, composta in gran parte da allevatori, ha potuto ascoltare le voci dei vari rappresentanti della filiera e anche qualche autocritica proveniente proprio da alcuni esponenti del mondo produttivo.

Un dibattito vivace e a tratti serrato, partito dalle considerazioni di Gabriele Canali, direttore del Crefis (Centro studi suinicolo dell’Università Cattolica di Cremona e Piacenza) che ha ricordato quanto la scarsa redditività degli allevatori e i pesanti costi di produzione siano determinati dalla forte dipendenza dell’import delle materie prime destinate all’alimentazione degli animali e dalla volatilità dei relativi prezzi. “Una situazione – ha sottolineato – che potrebbe essere arginata se venissero istituiti meccanismi collettivi di protezione rispetto alla fluttuazione dei costi dei cereali che garantirebbero prezzi più stabili soprattutto nei mesi critici”. Non solo. Canali ha voluto puntare il dito sul rischio che la produzione di cereali, mais soprattutto, destinati ai biocarburanti potrebbe provocare con un effetto negativo sulla zootecnia, contrapponendo due settori di un unico comparto. “Forse – ha detto – non sono stati valutati attentamente gli effetti sfavorevoli che un antagonismo di questo genere sarebbe in grado di determinare”.

La  grave crisi della suinicoltura italiana che a detta di Andrea Cavazzuti, allevatore di Modena, dura da ben sette anni, non è causata solamente dal costo dei cereali destinati all’alimentazione dei suini. “Questa crisi epocale – ha rimarcato Enrico Cerri, presidente di Prosus, cooperativa di macellazione costituita da allevatori – è determinata anche dalla nostra incapacità di adeguarci ai cambiamenti intervenuti in questi anni non solo a livello nazionale. Se vogliamo recuperare il terreno perduto è sulle nostre peculiarità produttive che dobbiamo puntare”. Ma le affermazioni che hanno suscitato il brusio della platea sono arrivate dall’esponente dei macellatori, Aldo Levoni, presidente Gruppo macelli di Assica, che dopo aver ricordato che entro la fine di quest’anno tutti i più importanti macelli applicheranno la classificazione delle carcasse, con conseguente timbratura delle cosce in base a parametri stabiliti a livello europeo, ha illustrato il motivo in base al quale molte industrie di macellazione italiane si approvvigionano all’estero. “Non si tratta solo di un minor costo da sostenere – ha detto – se fatto cinque, un solo prosciutto è di origine italiana mentre gli altri quattro sono esteri, il motivo va ricercato in quella garanzia di uniformità che nel nostro paese non riusciamo a trovare. Forse, occorre ragionare su una produzione diversificata”.

Quello della diversificazione produttiva è un tema ricorrente in suinicoltura che anche Marco Guerrieri, responsabile settore carne di Coop Italia, ha evidenziato nel suo intervento. “Io credo che il problema vero della suinicoltura italiana vada ricercato in una mancata programmazione produttiva e in una scarsa volontà a diversificare questa produzione, preferendo concentrarsi su un suino pesante che, in eccesso di produzione, ha di fatto determinato un abbattimento del suo valore. Coop Italia acquista il 96% di produzione suinicola sul territorio nazionale, ma è un fatto che se fino a dieci anni fa due  prosciutti pagavano il costo di un maiale, oggi questo non esiste più”.

“E’ difficile comprendere come variazioni non proprio macroscopiche nella produzione di cereali – ha poi concluso Giambattista Mayer di Assalzoo – generino percentuali di fluttuazione dei prezzi nell’ordine del 50-60%. E’ evidente si tratti di speculazioni finanziarie ad opera di persone che magari non sanno nemmeno come è fatta una pannocchia di mais. Peccato però che di tutta questa situazione a farne le maggiori spese rimane la filiera zootecnica”.

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