
Attenti al talentaccio!
In un mondo di vecchi si cerca la carne tenera, così l’artista promettente è uno dei soggetti più cercati dagli sponsor. In quest’ottica, cool ma pericolosa, procede la sua marcia l’Aaf – Affordable Art Fair, che ha incominciato i suoi preparativi per la sua seconda edizione a Milano: prevista per gli spazi superglamour del Superstudio Più a Milano, avrà luogo tra il 2 e il 5 febbraio con una serie impressionante di partner: dalla rivista «A» alla rivista «Artribune», dalle cucine Lago alle carte di credito Visa a così tanti altri da non poterli menzionare senza fare di quest’articolo una lista. Si tratta della principale internazionale per la vendita di opere d’arte contemporanea al di sotto dei 5.000 euro. Nata nel 1999, la stessa fiera ha sedi anche ad Amsterdam, Bristol, Bruxelles, Londra, Milano, New York, Singapore, Melbourne e prossimamente a Los Angeles, New Delhi, Amburgo, Stoccolma, Città del Messico e Roma a ottobre al Macro. Un’invasione. I promotori definiscono la visita “divertente e rilassata”, all’opposto dello spirito competitivo e sacrale che regna nelle fiere dove si scambiano opere a prezzi altissimi.
Forse dietro alla ricerca spasmodica dei giovani promettenti c’è proprio una reazione alla macchina dell’oro che non smette, nemmeno in tempi di crisi, di creare dei divi e di tenerli in auge almeno per il tempo che basta a scriverci un saggio su Parkett e a moltiplicare dei dollari. Anche questi sono spesso assai giovani, ma sono si sono esautorati dallo stato di emergenti sommersi in quanto scelti da gallerie top, quelle che pagano le loro produzioni nelle mostre che fanno storia o almeno cronaca rilevante. In questo, il sistema dell’arte è molto simile a quello letterario, dove ogni scrittore di successo ha il suo agente e la sua strategia di marketing e coloro che rimangono fuori devono pubblicare il proprio romanzo a pagamento o in internet. L’editoria è un buon esempio di spietatezza.
Per fortuna, come accade nel sistema arterioso, ogni ostacolo nella circolazione viene aggirato e spesso superato grazie alla costruzione di rami alternativi. Ecco allora che sembrano avere senso le manifestazioni che, da una parte, aprono le porte ad artisti meno audaci, dall’altra, fanno contenti coloro che, volendo comperare qualche opera da tenere in casa, non sanno dove cercare le proposte a prezzi contenuti.
Questo fenomeno fa anche molto piacere, perché mette in evidenza come si possa cercare la qualità anche nell’arte contemporanea: qualcuno non ha capito che il titolo del libro di Francesco Bonami, Lo potevo fare anch’io (Mondadori, 2007) è del tutto ironico e significa il suo contrario: l’arte contemporanea richiede una perizia esecutiva diversa da quella del passato, ma non certo minore. Non ha sempre bisogno della manualità, ma questo accade anche a un architetto, un direttore d’orchestra, un regista cinematografico.
Quindi sia benedetta la ricerca del talentaccio, se è colui che ha una predisposizione ma la alleva con l’esercizio, la fatica, la capacità di incassare le critiche e migliorarsi. Persino la televisione ha capito che i programmi di pura presenza come il GF non tirano più, mentre la gente si appassiona ai talent show in cui è tangibile la pazienza di affinarsi, che si balli con le stelle o si canti per una giuria antipatica. Anche fuori dai media, una manifestazione come Its che cerca stilisti e fotografi dai bacini più reconditi, si è rivelata la cosa migliore che Trieste dà alla cultura del contemporaneo.
Tutto bene, quindi? Finalmente si trovano luoghi d’esposizione alternativa a quelli maggiori, i ragazzi meno appoggiati hanno un’occasione che non rispecchia il sistema consolidato e (quasi) tutti possono comperare arte. Del resto è una formula sperimentata: Art Basel ha generato la controfiera Liste e Jay Joplin, prima di diventare il mercante che ha lanciato e poi divorziato da Damien Hirst, non era ammesso che in occasioni collaterali come UnFair.
C’è però qualche aspetto su cui riflettere. Anzitutto, l’Occidente è affamato di gioventù ed è disposto a pagare per averla. Lo capirono negli anni Settanta molte aziende internazionali che iniziarono a commercializzarla, sotto forma di scooter o di jeans. Lo capì, nei primi anni Novanta, Gianni Boncompagni quando inventò Non è la Rai, con la malizia composta di cento adolescenti esposte ogni giorno al desiderio del pubblico.
In secondo luogo e in parziale contraddizione, però, lo status di promessa può rivelarsi un privilegio da cui è difficile uscire, come insegna la lista dei dispersi tra i cantanti del Festival di Castrocaro. Le mostre di giovani artisti, quando le si presenta come tali, sono disertate dal pubblico che preferisce vedersi Caravaggio o Klimt. Come dargli torto? Infine, chi compera a queste fiere fa benissimo, ma non deve sperare di trasformare mille euro in un milione: si deve essere quasi certi che si perderà tutto, come succede quando si compera un abito o una moto. Come autori o come compratori, per entrare nel gioco degli adulti è bene non abusare di scorciatoie. Presentarsi acerbi (e farne un valore) in un’età in cui Jim Morrison, Basquiat e Raffaello si erano già spenti non è sempre una buona idea.
© RIPRODUZIONE RISERVATA