Rassegna stampa

Il benessere si è messo in Mostra

Si stanno già preparando i pulmini per il pellegrinaggio quinquennale a Nord, verso le mostre Documenta e Manifesta, mentre da una settimana si è chiusa la Biennale di Venezia con molte soddisfazioni: tra queste un numero di visitatori in crescita e incontri internazionali di fine mostra, anche non ufficiali, che ne dimostrano la vitalità. Nel frattempo, a settembre si sono inaugurate gigantesche biennali di Lione e di Istanbul.
Perché mai le mostre collettive d’arte contemporanea continuano a prosperare, anche durante la peggiore crisi economica da quando è nata la loro forma moderna? Alcuni libri recenti ci aiutano a comprendere il paradosso di queste occasioni effimere e costose, spesso troppo difficili per i palati del vasto pubblico che le affolla e che le critica al contempo.
Anzitutto, sono riti collettivi in cui la trasgressione è di casa e, seppure col sopracciglio alzato, tutti si possono avvicinare a forme sperimentali. Giova in l’intervista che Hans Ulrich Obrist fece ad Harald Szeemann e che troviamo nel suo Breve Storia della Curatela. Il curatore svizzero scomparso nel 2005, barba da guru e polso da manager, mise insieme questi due poli del suo carattere teorizzando la mostra come un “caos organizzato”: un luogo aperto in cui contano più l’evento e i comportamenti di spettatori e di artisti, che non una teoria messa in scena. La mostra è un luogo dove il pensiero resta fluido come in un dialogo di Socrate. In questo senso, la sua impermanenza è un vantaggio.
Un alto passo lo facciamo grazie all’accenno di storia della Biennale che Federica Martini e Vittoria Martini presentano in Just Another Exhibition; la seconda autrice ha incominciato a studiarla quando, nel 2005, Antoni Muntadas le chiese di ricostruire la vicenda dei padiglioni nazionali (ora l’opera è al Reina Sofia di Madrid nell’ambito di una retrospettiva dell’artista). Scopriamo che ciascun Paese ha usato il suo padiglione come una piccola ambasciata, dove il vantaggio su di un museo stabile risulta il confronto con le esposizioni di altri Paesi, sostenuto dall’elasticità: così un padiglione inventato dalla Russia zarista diventò sovietico-stalinista e oggi è luogo di autocritica per un Paese arricchito. E quanto al Padiglione centrale, che una volta era dedicato all’Italia, scopriamo che la sovrapposizione dei suoi strati è stata tale che già nel 1976 Germano Celant lo volle denudare e riportare a mattone, per poi accorgersi che non poteva usarlo se non ricostruendovi degli ambienti creati da artisti nella storia delle interazioni arte/spazio.
Antonello Negri, nel suo L’arte in mostra, usa un metodo storico impeccabile per condurci lungo tutta la storia delle mostre, anche se (parrebbe volutamente) non si addentra nel ruolo del curatore e quindi nel problema del punto di vista singolo, teoricamente sofisticato ma fortemente manipolatorio, da cui la mostra collettiva prende corpo già a partire dal primo Novecento, sia quando si presenta come ricognizione sia quando ha impianto tematico.
Negri parte ovviamente dal Salon, nato come momento di autocelebrazione per il potere assolutista in Francia, che diventò ben presto un luogo dove ciò che era importante era vendere: gli artisti foraggiavano gli uscieri che appendevano materialmente i quadri perché avessero una collocazione ben visibile. Curioso: oggi invece, nell’epoca che si vuole dominata dall’idea di arte come mercato, nelle mostre non si vende più. Di prezzi si parla solo negli uffici più reconditi delle gallerie private. Riguardo al tema dell’investimento, peraltro, stupisce vedere come i nomi di più vasto successo di un tempo siano quasi sistematicamente dimenticati, soprattutto gli scultori monumentali.
Ma anche qui, la mostra passa e con essa anche i suoi errori. La sua formula ci consente di ricordarne solo i momenti innovativi. Glorioso, per esempio, il Padiglione Spagna dell’Esposizione di Parigi del 1937, con Guernica di Picasso ancora fresco e la Fontana di Mercurio di Alexander Calder: testimonianze di un sostegno alla parte antifranchista della guerra civile che, in un museo stabile, sarebbe stato più difficile presentare.
Ci sono poi incroci e accavallamenti tra discipline che difficilmente si incontrano se non nelle mostre: si pensi al connubio tra architettura, design, arredamento d’interni, illustrazione e pittura che fu alla base della prima apparizione dello spirito pop, ovvero di una cultura popolare non più rurale ma urbana, messo in scena nella mostra This is Tomorrow al’Ica di Londra nel 1956. Una rivoluzione che sarebbe attuale ancora oggi, giacché spesso i designer guardano gli artisti come marziani e gli architetti disdegnano entrambe le categorie.
Insomma, la dispersione di denaro e talvolta la qualità discutibile fa delle mostre un soggetto su cui è lecito discutere. Ma solo queste occasioni, proprio perché sono simili a un circo il cui tendone si smonta facilmente, riescono a fare asserzioni azzardate, ipotesi stravaganti, percorsi inediti e per questo importanti di carattere sia culturale che etico.
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Antonello Negri, L’arte in mostra. Una storia delle esposizioni, Bruno Mondadori, Milano, pagg. 265, € 22,00;
Hans Ulrich Obrist, Breve storia della curatela, Postmediaboooks, Milano, pagg. 222, € 21,00;
Federica Martini, Vittoria Martini, Just Another Exhibition, Postmediabooks, Milano, pagg. 160, € 16,60

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