Rassegna stampa

I paesi europei hanno perduto la centralità

Da qualche tempo si va intensificando l’attività fuori dall’Europa di molti quartieri e organizzatori fieristici italiani, da soli o in joint venture con altri organizzatori europei. Tali attività riguardano l’acquisizione di manifestazioni fieristiche o di quote di partecipazione nelle società di gestione dei quartieri espositivi, o più semplicemente l’organizzazione di gruppi di produttori che intendono esporre alle manifestazioni dei mercati emergenti (spesso con il supporto dell’Ice, l’istituto per il commercio estero). Ci si chiede quale ruolo abbiano queste attività rispetto al sistema fieristico italiano, se siano in grado di rafforzarlo o se abbiano l’effetto di togliere mercato a una situazione già difficile.
È utile premettere che simili discussioni si erano già avute in passato, in Germania, quando i quartieri tedeschi avevano iniziato a sviluppare manifestazioni nei paesi extraeuropei, soprattutto in Asia. Molti vedevano in queste attività una sottrazione di risorse al l’economia locale, dato che i quartieri tedeschi erano supportati dai Länder con l’obiettivo prevalente di sviluppare il turismo business e l’indotto economico dell’area.
Si è poi capito invece che le lungimiranti operazioni fuori dall’Europa – iniziate in questo caso circa trent’anni fa – avevano l’obiettivo di rafforzare il sistema fieristico tedesco, che era così in grado di offrire ai propri clienti-espositori partecipazioni fieristiche strategiche presso i paesi emergenti e al tempo stesso di acquisire più facilmente espositori extraeuropei per le proprie manifestazioni in Germania, sbarrando la strada ai nuovi competitor.
Anche le attività fieristiche extraeuropee degli organizzatori e dei quartieri italiani si prospettano con un segno positivo, per vari motivi. Innanzitutto gli investimenti più recenti sono concentrati nei paesi a sviluppo recente, ossia Russia, India, Cina, Brasile, e rispondono alla domanda di molti produttori-espositori nazionali di approcciare tali mercati con partecipazioni guidate, scegliendo le manifestazioni che meglio permettono di conoscere quelle economie.
Le fiere in questi casi sono infatti preferibili agli altri strumenti di comunicazione perché offrono opportunità di feed-back e di relazioni, oltre che di visibilità.
In secondo luogo le attività extraeuropee rispondono alle recenti evoluzioni del sistema fieristico mondiale, che si va strutturando su 3-4 grandi aree continentali (Europa, Nord America, Cina e Asia Orientale, India e Medioriente) mentre in passato le manifestazioni fieristiche rilevanti (quelle in cui si capiva l’andamento dell’intera industria) erano soprattutto in Europa e – in misura molto più limitata – negli Stati Uniti.
Il sistema fieristico mondiale si va infatti riconfigurando per grandi aree di domanda, presso cui gli espositori vanno periodicamente a presentare i propri prodotti e le innovazioni mentre la grande parte delle manifestazioni europee era in passato focalizzata sui sistemi di offerta nazionali, che richiamavano dal resto del mondo soprattutto i visitatori.
Oggi che la struttura dell’industria manifatturiera sta diventando policentrica, il richiamo delle fiere dell’offerta europea (dell’esportazione) verso i buyer extraeuropei si va affievolendo, proprio perché ciascuna delle grandi aree di domanda sta configurando specifiche manifestazioni, adatte ai propri mercati. Diventa quindi indispensabile adattarsi al policentrismo ed esporre fuori dall’Europa.

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In terzo luogo si può notare che lo sviluppo delle attività estere degli operati fieristici risponde all’interesse dei quartieri e degli organizzatori nazionali non solo ai fini delle migliori possibilità di scambio di espositori, di cui si è detto più sopra, ma anche al fine di contrastare le difficoltà economiche connesse con la maturità del mercato fieristico europeo, flagellato dalla congiuntura negativa e da una concorrenza eccessiva.
I bilanci degli operatori fieristici in sostanza, possono beneficiare di nuovi fatturati, realizzati nei paesi con un mercato fieristico ancora in crescita.
Infine, si vede la positività delle operazioni “di sistema” dei grandi quartieri italiani che fanno da apripista nelle relazioni con i quartieri extraeuropei mentre gli organizzatori si inseriscono con le partecipazioni di gruppi di propri clienti alle varie fiere specializzate.
Tuttavia, a fronte di queste opportunità e positività, si profilano anche alcuni aspetti problematici. Occorre infatti ricordare che l’Italia non è la Germania, né sul piano della struttura produttiva, né su quello della struttura fieristica. Le imprese del nostro manifatturiero sono di dimensione mediamente pari a 1/4-1/5 rispetto a quelle tedesche e sono sostenute da un sistema paese molto meno ricco ed efficiente. Anche i nostri organizzatori fieristici sono spesso formiche (sono più di un centinaio quelli che organizzano manifestazioni internazionali, e hanno spesso organizzazioni con non più di 4-5 persone) in confronto con quelli tedeschi, rappresentati dai grandi quartieri (non più di 5-6 in tutto il paese con varie centinaia di occupati ciascuno). Queste piccole dimensioni organizzative e questa grande numerosità di operatori che caratterizzano l’Italia, oltre a rendere oltremodo difficoltosa ogni operazione straordinaria per la singola organizzazione potrebbero rendere fortemente minacciose anche quelle che oggi appaiono delle opportunità.
In particolare si profila la minaccia di comportamenti competitivi “frammentati” che riproducono all’estero la nota guerra delle fiere legata al campanilismo nazionale, con tutti i danni che ha già fatto in Italia. La volontà di mantenere la propria indipendenza da parte di alcuni quartieri e organizzatori sta producendo infatti la moltiplicazione delle operazioni di joint-venture e di partecipazione a manifestazioni extraeuropee con l’effetto finale che, nello stesso paese, si vedono gruppi separati di italiani che partecipano a differenti manifestazioni dello stesso settore, con questa o quella bandiera di gruppo fieristico o di regione.
In tal modo essi alimentano la guerra delle location di quel paese e nella migliore delle ipotesi restano poco visibili, sprecando parte dei propri sforzi. Non è forse superfluo sottolineare quanto sarebbe utile cercare di coordinare queste iniziative e fare massa presso poche e selezionate manifestazioni: se non proprio sotto un’unica bandiera, almeno con un preciso progetto di visibilità.
Ciò consentirebbe di realizzare innanzitutto utili operazioni di marketing collettivo, che in primo luogo dovrebbero cercare di riunire gli italiani almeno per gruppi di offerta omogenei, ma che magari potrebbero coinvolgere anche altri paesi europei. In secondo luogo potrebbero essere il campo su cui si possono effettuare prove per collaborazioni e alleanze più intense tra i nostri organizzatori, oltre che tra i nostri produttori. E chissà che, davanti a progetti importanti come quelli di affermare le nostre produzioni e i nostri sistemi di servizio contro quelli di altri paesi, non si riesca ad avviare quegli incrementi delle dimensioni produttive e quelle concentrazioni di cui tutte le nostre industrie avrebbero tanto bisogno. In fondo, la storia delle migliori fiere italiane ci ha insegnato proprio questo: le occasioni di lavoro insieme aiutano a tracciare meglio il futuro.
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