Rassegna stampa

Frieze «congela» la crisi

di Angela Vettese

Da domani si fa finta di niente. Per una settimana la crisi verrà rimossa almeno a Londra, a Regent Park. Aprono infatti i festeggiamenti di Frieze, la fiera d’arte contemporanea che ha rubato lo scettro forse anche ad Art Basel. Negli stand le circa centocinquanta gallerie private stanno ultimando i loro allestimenti, così come le sculture nel parco adiacente alla sede, che quest’anno saranno disposte in una superficie doppia che in precedenza.

La città intera si copre di eventi glamour, capitanate da quanto accade nelle due sedi cittadine del museo Tate: grande mostra di Dominique Gonzales Foerster alla Tate Modern, alla Tate Britain feste in onore dei quattro artisti selezionati per il Turner Prize, dove per ora è favorita l’anglo-bengalese Runa Islam.

Ci sono vari elementi per i quali molti sperano che il disastro economico mondiale non tocchi questa edizione e, in generale, aspetti un poco a rovesciarsi sull’arte contemporanea. Grande scoperta del lusso di fine secolo, ha segnato di sé tutta l’epoca che partì attorno all’ottante e che si chiude in questo preciso autunno di ventotto anni dopo. Ciò che spinge ad avere fiducia – una fiducia a tempo, e quindi ancora più frenetica – sono considerazioni diverse.

Anzitutto i segnali del mercato sono buoni: la megavendita recente di Damien Hirst, il primo artista nella storia che si sia organizzato da solo un’asta tutta dedicata alle proprie opere con la complicità dichiarata di una delle due case d’aste migliori al mondo, è contestata sul piano dei principi prima ancora che su quello dei prezzi. Eppure oggi serve a molti a pensare che, se sono stati versati così tanti denari su carcasse di animali in formalina e oggetti francamente sgradevoli, vuol dire che molta gente ha ancora soldi e soprattutto voglia di investirli nel contemporaneo.

Chi sono questi collezionisti? I ricchi del nuovo Oriente, si dice, quegli indiani, quei russi, quei cinesi che sono ansiosi di riempirsi le case di opere occidentali come noi, in tempi di mutuo scambio, desideriamo arredare le nostre case con letti da oppio orientali e kilim afgani. Ma anche i ricchi del vecchio Occidente continueranno finché possono a stare con gli occhi addosso al mercato dell’arte. Gli immobili scendono di valore dappertutto tranne forse in Italia,caso atipico di idolatria del mattone. Inoltre, non sono esentasse e costano in manutenzione. Azioni e fondi non si toccano più e per un bel pezzo molti ne avranno paura. La semplice dispersione consumista ha anch’essa fatto il suo tempo, perché comunque, rispetto all’inizio degli anni Ottanta, si sente in giro un’etica diversa e una diffusa condanna dello spreco.

In questo senso l’arte paga molto. Oltre a essere mobile e senza oneri, e nonostante si conosca assai bene il potenziale di speculazione che sottende, l’opera ha sempre dentro di sé un aspetto di pensiero, di espressione dell’intelligenza umana, di piacere per il sapere in ogni sua possibile accezione, tale da metterla al riparo dall’essere considerata una merce qualsiasi. Per deperibile, brutta, sperimentale che sia, non sarà mai considerata un bene usa e getta o un puro dono al proprio narcisismo.

Tornando a dati più oggettivi, non si può inoltre scordare ciò che accadde all’indomani del venerdì nero dell’autunno del 1987. In quei giorni, i ragazzini con la faccia di Tom Cruise che dominavano (o erano dominati da) Wall Street erano disperati, vagavano per quelle che consideravano le ultime feste dell’impero con l’ennesima vodka in mano. Eppure il mercato dell’arte resse bene, toccò alcuni dei suoi grandi record proprio dopo quella caduta in borsa e capitolò soltanto due anni dopo, nel 1989, quando gli scandali giapponesi imposero una battuta d’arresto a quell’ago della bilancia che era stato il collezionismo del Sol Levante.

Dal 16 al 19 ottobre vedremo come si comporterà il pubblico festante di Frieze. Forse guarderà senza toccare e farà lunghe puntate agli "artists talk", dove sono annunciati nomi come quelli di Boris Groys, Yoko Ono, Roni Horn, Carsten Hoeller. Forse si accalcherà per vedere cosa porta di novo il premio Cartier, dedicato a giovani non inglesi e under 35. Forse sarà attratto da ciò che accade nelle fiere collaterali e in gallerie pubbliche o private come Whitechapel, Serpentine, White Cube, Gagosian, Saatchi e così via. Ma è probabile che chi può torni ancora a casa con un bastimento carico carico di arte contemporanea amata, odiata, contestata ma ormai, grazie alla belle epoque dalla quale veniamo e che ci sta svanendo sotto gli occhi, solidamente entrata nell’immaginario corrente.

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