Rassegna stampa

Tra i patinati del bookshop

Germano Celant sarà presente ad Artelibro, intervenendo, tra l’altro, anche nel dibattito sulle nuove prospettive offerte dalla globalizzazione dell’arte alla produzione del libro d’arte. Anticipiamo qui uno stralcio della relazione che il critico d’arte terrà in Sala Borsa sabato 27 settembre. di Germano Celant

Nell’arco di cinquanta anni il libro d’arte, con l’avvento delle nuove tecnologie di stampa, è passato dalla scrittura all’immagine. È transitato dall’imponente presenza della parola, utile per descrivere e illustrare le componenti fattuali e cromatiche dell’opera, riprodotta in bianco e nero, a un dilagare della riproduzione a colore, che lentamente ha ridotto l’importanza della descrizione, lasciandole solo l’analisi storico-linguistica. Il trapasso ha estremizzato i ruoli della riproduzione artistica su pagina che, nel trattato scientifico ad alta intensità teorica e ad amplia estensione analitica, si è ridotta a "minimale" illustrativo del testo, mentre nell’ambito della comunicazione di massa e delle promozioni commerciali ed espositive si è tradotto in un "massimale" spettacolare e seducente, capace di impressionare senza alcuna interpretazione cognitiva, all’interno di un album o catalogo, lo sguardo del lettore. La coesistenza di queste polarità che oggi relega la storia e il pensiero sull’arte in un ambito ridotto e specializzato, mentre divulga al massimo la cronaca degli eventi artistici su giornali e su riviste è conseguenza di un tornado informativo sull’arte moderna e contemporanea che in campo editoriale ed espositivo, negli anni Settanta, si sviluppa in Italia e in Europa con la pubblicazione dei «Maestri del Colore» e con la graduale affermazione dei grandi musei, tipo Centre Pompidou, Parigi, studiati per attrarre enormi quantità di pubblico, e quindi dei consumatori di pubblicazioni e prodotti relativi all’arte.

La valanga di cataloghi e di mostre si concretizza negli anni Ottanta e trasforma il sistema dell’arte da una congregazione di amatori e di ricercatori in un industria che pensa alla ramificazione commerciale, alla promozione e diffusione dei suoi artefatti nel mondo. Muta l’approccio al prodotto artistico che diventa mobile e veicolabile su tutti i mercati dell’investimento economico quanto culturale. Nello stesso periodo i Paesi occidentali cominciano a scoprire il valore promozionale, sul piano turistico e commerciale, del patrimonio e dell’evento artistici. Questi hanno bisogno di contenitori, i musei e i centri performativi, quanto di strumenti comunicativi, all’inizio libri e pubblicazioni che in un territorio allargato, quello della lingua più diffusa, l’inglese, possano circolare più delle mostre, e poi, negli anni Novanta, di "siti" elettronici, atti a coinvolgere tutto il globo.

Nasce allora il boom delle costruzioni museali che lentamente si tramutano da "contenitori" di collezioni e da veicoli di conoscenza diretta delle opere, in "forme artistiche", capaci di comunicare l’alta creatività che contraddistingue il museo, sia per il suo passato quanto per il suo futuro. "Sculture" abitabili e fruibili che, nel 1997, trovano il loro azimuth nel Guggenheim Bilbao, disegnato da Frank O.Gehry, a cui seguirà una pioggia di "santuari" architettonici, dal carattere manieristico e bizzarro , che enfatizzerà ulteriormente il ruolo dell’edificio quale "cartello" pubblicitario dell’artefatto. Parallelamente a questa spettacolarizzazione delle istituzioni museali si assiste nel campo delle biennali e fiere, quanto nel mercato dell’arte, in relazione alle case d’asta, a una sorprendente moltiplicazione di manifestazioni che cercano, senza altra prospettiva che la cronaca giornaliera e la vendita all’ingrosso, di allargare la diffusione dell’arte. Tutto ciò appare da una parte come una sicura democratizzazione dell’informazione artistica, perché porta l’oggetto estetico all’attenzione di un enorme pubblico, come dimostrano anche le conseguenze sulla diffusione del design, della fotografia e dell’architettura, che vedono i loro "artefatti" salire in quota, mentre dall’altra si afferma la mercificazione selvaggia dell’opera intellettuale e creativa.

Sulla soglia tra le due si pone il nodo dell’informazione conoscitiva che dovrebbe essere utilizzata per disciplinare, quando possibile, l’eventuale "acquisto" culturale e patrimoniale. Un sapere mobile e contestuale che viaggia principalmente attraverso le pubblicazioni, che possiedono solo in rarissimi casi uno scrupolo filologico e scientifico. In questo territorio del sapere, continuo o effimero, superficiale o profondo, si è affermata un’editoria artistica che ha raggiunto quantità imponenti, in relazione all’aumento del pubblico. La diffusione è esplosa sul piano della produzione dell’oggetto, libro o catalogo, basti pensare ai volumi d’arte e d’architettura allegati ai giornali, ma rimane sempre il problema della qualità analitica e storica. Come la si può distinguere? Certamente non chiamando in causa l’editore, ma l’istituzione. Infatti, con la diffusione dei musei, delle biennali, delle fiere, e dei cataloghi d’asta, la casa editrice si è trasformata, rispetto al committente pubblico e privato che copre le operazioni con prevendite, per un verso in una "industria tipografica" capace di fornire un servizio di immagine, di controllo editoriale e di distribuzione nazionale e internazionale della pubblicazione, e per l’altro, in rarissimi casi, in promotore di piccole collane teoriche e scientifiche, integrative dell’area industriale.

La logica e il soggetto, nonché la loro trattazione sono invece responsabilità dell’ente sia esso museo, kunsthalle, biennale e fiera. In tale senso la differenziazione è alquanto evidente: se l’evento riguarda un percorso storico, il risultato è principalmente indirizzato a inquadrare un periodo o un soggetto del passato, con l’intenzione, sempre più rara, di dare un contributo di carattere analitico interpretativo, mentre se concerne la cronaca, vale a dire la contemporaneità e l’attualità, è quasi sempre superficiale e promozionale, anche se in alcune elaborazioni di musei e di istituzioni, l’indagine scientifica può risultare altamente puntale nell’individuare la ragioni di un valore storico dell’artista o del movimento in corso. È interessante notare che tale separazione, suscettibile di interessare lo studioso quanto l’appassionato d’arte, viene "superata", oggi, nelle pubblicazioni delle aste, da Sotheby’s a Christie’s, dove nel catalogo della vendita si tenta una "giustificazione" storica, mediante rimandi iconografici peculiari dell’analisi museale, del prodotto contemporaneo. Tali procedure, seppur differenziate nell’individuazione dei "valori", fanno altresì ricorso all’impatto fisico dell’oggetto catalogo-libro, che, nel corso dei decenni, ha acquisito una sua spettacolarità. Si è trasformato in "libro d’artista", inserendo il contributo creativo dell’artista, autore di pagine immaginarie, oppure si è tradotto in "house organ" super patinato dei prodotti delle gallerie commerciali, ed è infine assurto a "scultura", nel senso di volume e di ingombro, raggiungendo così un "peso" considerevole, raramente scientifico e quasi sempre soltanto fisico.

Un universo editoriale e artistico potente e diffuso che ha monopolizzato tutta un’area culturale che appare ora "passata", se non conclusa e certamente giunta a un punto di massima inflazione, perché concernente un mondo ancora ristretto al "territorio" occidentale, principalmente anglosassone, dove i parametri dell’analisi scientifica e informativa sono stabiliti e conosciuti, quasi obsoleti. Una situazione dominante che contrasta ora con la consapevolezza che il perimetro del nostro fare e del nostro conoscere è "costretto" a integrare gli "altri Paesi" e le "altre culture" che stanno ascendendo? Quali tipi di ricerche e di pubblicazioni saranno necessarie, considerato che in certe lingue, come l’arabo, non esiste un termine per "curatore" d’arte o di museo e che un dizionario dei termini estetici e creativi non è stato ancora redatto, perché i significati sono completamente diversi o a volte intraducibili? Come si potrà creare un dialogo e una diffusione editoriale là dove le immagini subiscono interpretazioni differenti a seconda delle prospettive culturali, politiche e religiose? Che tipo di impatto avranno la trascrizione e la traduzione, dalla nostra lingua all’altra, sia essa russa, cinese, africana e araba, oppure come funzionerà l’intreccio tra scrittura e immagine e quale effetto linguistico e interpretativo produrrà sulla comunicazione in arte? Quale relazione si potrà creare tra tradizione e innovazione, facendo ricorso non solo al libro, ma alle nuove tecnologie, che inizialmente si affiancheranno alla stampa? Che ruolo intermediario assumeranno il libro e il catalogo, insieme alle loro protesi tecnologiche, messi oggi in discussione perché spinti a "dislocarsi" e a reinventarsi le metodologie? Si sarà costretti a lasciare le cose come sono, oppure sarà necessario scoprire processi, a metà tra tradizione e innovazione, capaci di prendere in considerazione le memorie e le opposizioni linguistiche degli altri? Credo che questa sia la sfida che mi interessa per avvicinare un "altro" pubblico e per transitare da un’era all’altra.

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