
L’agente che ingannò i nazi
di Sandro Gerbi
Dalla metà degli anni Cinquanta alla morte prematura nel 1983, l’agente letterario Erich Linder ha dominato la scena editoriale italiana. «Credo che l’autore sia vittima dell’editore. Il mio scopo è di difenderne gli interessi», sosteneva, noncurante di suscitare ostilità diffuse in aziende librarie che mal ne tolleravano le ingerenze. Perché Linder non limitava la propria opera agli aspetti economico-contrattuali. Sceglieva gli editori che reputava più adatti ai suoi autori e interferiva negli ambiti più propriamente tecnici, come copertine, pubblicità o distribuzione commerciale. D’altronde, poteva permetterselo: per cultura, gusto, esperienza, pratica di lingue straniere, rapporti con i mercati anglosassoni. Tanto da giungere a rappresentare migliaia di autori, italiani e stranieri.
Oggi tutto è radicalmente cambiato: l’industria editoriale è sempre meno "personalizzata", i mezzi di comunicazione consentono grande celerità di trattativa, i contratti sono altamente standardizzati, gli agenti letterari italiani sono ormai più di cinquanta (anche se quelli che contano non superano la decina). E su Linder si è depositato un alone mitico, difficile da dissipare. Ci prova oggi il giornalista Dario Biagi (figlio di un fratello di Enzo), che propone una simpatetica biografia di Linder usando una gran varietà di fonti orali, articoli e, in misura minore, carte d’archivio.
In verità, la vita di un agente letterario può sembrare poco interessante. La maggior parte del suo lavoro è pura routine contrattuale. Né Linder sfuggirebbe alla regola, non fosse per il fatto che la sua adolescenza è stata veramente avventurosa. Nato per caso a Leopoli nel 1924, da padre austro-ungarico e madre polacca, vissuto poi a Vienna e Trieste, nel ’34 si trasferisce a Milano, dove lo coglie nel ’38 la legislazione antiebraica. Il giovanissimo Erich, mentre completa gli studi alla scuola ebraica di via Eupili, comincia a collaborare con l’editore Corticelli e con l’Agenzia letteraria internazionale (Ali) di Augusto Foà, padre di Luciano, nel ’62 fondatore dell’Adelphi. Sarà lui a farlo assumere alle Nuove Edizioni Ivrea di Adriano Olivetti, mentre si cimenta in traduzioni. Con l’8 settembre cerca di espatriare senza successo in Svizzera. Si trasferisce allora a Firenze e compie un capolavoro d’audacia o d’incoscienza, facendosi assumere quale interprete dal locale comando tedesco. Dopo altre peripezie, alla Liberazione torna a Milano e poco dopo entra con Foà all’Ali, di cui assumerà gradualmente il controllo. Qui inizia la sua "carriera". Biagi descrive bene il tumultuoso sviluppo dell’Ali. Si sofferma sul carattere di Linder, capace a un tempo di asprezze e generosità. Ma si concentra giustamente sui rapporti mantenuti da Linder nel corso del tempo con autori e editori. Si possono così leggere pagine gustose su Arbasino, Bacchelli, Bassani, Calvino, Meneghello, Elsa Morante, Soldati, Sciascia e sui fraterni amici di Linder, lo "squinternato" Niccolò Tucci e il "redditizio" Enzo Biagi (che deve al suo agente l’idea di molti bestseller, come la storia d’Italia a fumetti). Sul fronte degli editori, sono ben raccontati soprattutto gli scontri con Feltrinelli e con Garzanti (che passerà dall’odio all’amore per Linder).
Purtroppo, il pur legittimo gusto per l’aneddoto induce l’autore a invadere anche la sfera del privato raccontando inutili dettagli sul complesso rapporto coniugale e sulla vita sentimentale. Non lo diciamo per pruderie. Semplicemente Linder non era una star del cinema: invaderne la privacy non aiuta a comprenderne né la dolente ironia né la grandezza o i limiti professionali. Per andare più in profondità, vi sono alla Fondazione Mondadori le sue carte ben ordinate, duemila faldoni che attendono solo di essere studiati. Nei casi in cui Biagi ne ha approfittato, ha anche ottenuto i suoi esiti migliori e più duraturi.
1Dario Biagi, «Il dio di carta. Vita di Erich Linder», Avagliano, Roma, pagg. 204, € 14,50.