
Lituania, la terra del «Kakku»
di Diego Marani
Le acque della terra si dividono in oceani e mari. Gli oceani sono aperti, sconfinati, indifferenti. Basta pensare ai loro nomi per sentirne il distacco: Pacifico, Atlantico, Indiano. Sembrano grandi ville di campagna cui si arriva percorrendo lunghi viali alberati e quando si riparte c’è sempre qualcuno che da una scala di marmo ci saluta col fazzoletto. I mari invece sono condomini angusti, abitati da gente litigiosa, che si fa dispetti e parla male del vicino appena può. Perfino nella confusione dei nomi i mari portano una conflittualità latente. Il Mediterraneo i romani lo chiamavano Mare Nostrum, ma per i turchi era il Mare Bianco e nella Bibbia viene denominato Mare dei Filistei, Mare Occidentale o Mare Grande. Secondo le varie etimologie, il nome del Baltico forse deriva da fango o palude, meglio, da quel riflesso bianco che manda la melma quand’è ricoperta da un velo d’acqua. Gli svedesi lo chiamano Mare d’Oriente e i finlandesi che pure ce l’hanno a occidente lo chiamano allo stesso modo, svelando così un certo smarrimento. È vero che i finnici non vogliono far sapere troppo in giro che vengono dall’Asia e chiamare Mare d’Oriente quello che invece sta a occidente è un fine sotterfugio per confondere le tracce. È anche un poco sognare di prendere un giorno il posto dei tanto detestati svedesi. C’è da aspettarsi questo e altro da gente che ha cinque punti cardinali. Infatti, oltre ai quattro classici, i finnici hanno anche l’improbabile Kakku, che è il punto da dove sorge il sole. Guai a dire che sorge a Oriente: sembrerebbe loro di dovere anche quello ai russi. Altra gente poco affidabile del condominio baltico.
Questa breve divagazione già traccia la complessità del Baltico e ce lo fa subito assomigliare al Mediterraneo. Nella complicazione baltica si incastona alla perfezione la gemma dei tre Paesi baltici, schiettamente diversi l’uno dall’altro ma per molti europei così simili nella loro perfetta triade. Come Qui, Quo, Qua, i tre porcellini o i tre moschettieri, inconfondibili quando sono tutti insieme, indecifrabili uno per volta. Prima che riemergessero dagli abissi della storia, Estonia, Lettonia e Lituania anche a me hanno sempre fatto pensare a tre vecchie zie rimbambite che si dice sempre di andare a trovare, là dove stanno in tanta malora, e poi non ci si va mai. Ancora oggi pochi sanno che lungo un migliaio di chilometri di linea costiera si mescolano le più profonde diversità linguistiche dell’Europa, sopravvivono i resti delle religioni animiste un tempo diffuse in tutto il continente, si sono incrociati i destini di grandi popoli e decine di altri sono scomparsi lasciando di sé soltanto qualche toponimo.
Per fortuna che anche in tanto nord, il concetto di sud coincide con il nostro, seppur talvolta rovesciato. In soldoni, ad andare troppo giù o troppo su, anche nel Baltico sono tutti terroni. Così ci aiuterà sapere che per gli estoni i finlandesi sono gente rozza e un po’ ottusa, abitanti dei boschi, che non hanno mai visto il mare. Allo stesso modo per i lituani gli estoni vengono subito prima degli esquimesi. Un sentimento espresso bene dalla pubblicità televisiva di una famosa birra lituana, dove si vede l’estone Markko avvicinarsi incuriosito a un bivacco di lituani che bevono e ridono. «Con Utenos anche un estone riesce a fare festa», dice lo spot. Vero che la birra nel Baltico sicuramente unisce. In lettone si dice «alus», in lituano «alùs», in antico prussiano «alu» e in finlandese «olut». I lituani chiamano i lettoni «zirgas galvas», che vuol dire testa di cavallo, cioè tonto. Ma lo stesso dicono i lettoni dei lituani. Chissà che cosa ne pensano i cavalli. Inevitabile e storica, la rivalità fra lituani e polacchi si esprime ancora tutta nell’epiteto «schlachta», un tempo riservato ai nobilotti polacchi insediatisi sulle rive del Niemen, oggi esteso a tutti i numerosi polacchi che vivono a Vilnius. Al punto che Kaunas, la vecchia capitale, alza la cresta e rivendicando maggiore purezza, rivuole indietro il titolo. Con garbo, però. «Se Vilnius non s’arrabbia, si può dire che Kaunas è il cuore della Lituania», azzardano i campanilisti di Kaunas che, sarà utile ricordare, sta ad appena cento chilometri da Vilnius.
È però sempre nella lingua che ogni popolo esprime la sua più profonda originalità. L’ape e il miele che da sempre caratterizzano la vita dei popoli baltoslavi hanno prodotto in lituano originali espressioni idiomatiche. Da «bite» che significa «ape» viene «biciuliáuti» che significa possedere api in comune ed essere per questo in rapporti di amicizia. Un’amicizia apistica, insomma, da noi assolutamente sconosciuta, che si esprime ancora meglio nel verbo «išbiciuliáuti», fare amicizia. «Bìtininkas» è invece colui che regala un alveare in segno di amicizia. Questo mondo di nettare e dolcezza è governato da Austeja, dea delle api e figura allegorica che rappresenta anche la regina dell’alveare. E qui veniamo alle divinità e alle credenze ultraterrene, dove l’originalità dei baltici non è seconda a nessuno. Per i lettoni il Natale è ancora la festa del sole e nei travestimenti animaleschi si mescola al carnevale. La sfilata del tronco d’albero incendiato trascinato nelle strade delle città per scacciare gli spiriti maligni in Lettonia viene trasmessa in televisione come da noi l’Angelus del Papa e passa sempre rigorosamente davanti al Parlamento, noto covo di demoni.
Nel suo saggio Storia notturna, Carlo Ginzburg riporta le confessioni del contadino livone Thiess che nel 1692 dichiarò davanti ai giudici di essere un lupo mannaro. Di confermata reputazione, tre volte l’anno i lupi mannari livoni andavano all’inferno a combattere i diavoli. Contrariamente a quel che si crede, i lupi mannari aiutavano l’uomo nella lotta contro il male. Non era raro nei cieli notturni di quei tempi vedere i lupi mannari inseguire diavoli e stregoni per strappare loro i semi e i germogli che avevano rubato agli uomini. Thiess tiene però a precisare che i lupi mannari tedeschi andavano a combattere diavoli tedeschi in un inferno separato e anche questo la dice lunga sulla forte percezione che hanno i baltici della propria identità.
Nel suo romanzo Il fiume sacro, la scrittrice finlandese Aino Kallas racconta del fiume estone Võhandu, che non sopportava né ponti, né chiuse e con accanimento distruggeva tutto quello che l’uomo gli costruiva sopra. È un po’ lo spirito di questi popoli che la storia aveva dato tante volte per spacciati e che invece oggi si sono ripresi il loro posto sulla carta geografica dell’Europa. E non solo dell’Europa. Pochi sanno che nel XV secolo il regno di Curlandia aveva colonie a Trinidad e Tobago. I lettoni che oggi sbarcano nel piccolo arcipelago caraibico si sorprendono a ritrovare toponimi e cucina baltica. Percorrendo le antiche carte geografiche dell’entroterra baltico, si scoprono nomi di paesi e di popoli che sono invece scomparsi per sempre. Pomesania, Nattangia, Sambia, Nadrovia, Samogizia, Scalovia, Varmia, Barta, Galindia, Lubovia, Semigallia, Curonia, tracciano l’immaginaria mappa di un’Europa che non fu ma che avrebbe potuto essere se solo la storia avesse lasciato posto a tutti.
È vero che certi popoli partono svantaggiati anche solo per il nome che portano. Quanto potevano mai durare in queste dure terre i troppo teneri Budini? E si pensi allo stress di una vita da Neuri. Per non parlare dei poveri Geloni, sempre zoppicanti nella steppa gelata. Quante altre lingue ci siamo persi, quante bandiere mancheranno per sempre all’appello delle nazioni? Da linguista ho il grande rammarico che non potrò mai comperarmi un metodo autodidatta di Scalovio o di Pollexio e misurarmi con le loro protobaltiche irregolarità. Da europeista mi sento mutilato: noi siamo un continente di città e di capitali e a guardare la carta del Baltico sento che qui ne manca qualcuna. E chissà come sarebbe stata l’America se l’avessero scoperta i Semigalli. Sicuramente più complicata, e questo le avrebbe fatto bene. Nel mondo che ci siamo così poveramente perduto, tutto sarebbe stato rimescolato, ma in fondo non troppo diverso da quel che conosciamo, ché gira e rigira l’Europa ce la siamo sempre giocata fra noi. «C’è del marcio in Samogizia», avrebbe detto l’Amleto baltico, e nell’ora di storia avremmo studiato che «se la Lubovia piange, la Scalovia non ride», invece di Albione, perfida sarebbe stata magari la Sudavia. Sotto il dominio di altri imperi si sarebbe proclamata la grandezza di una «Pomesania felix», il motto del qualunquista sarebbe stato «viva la Nadrovia, viva la Nattangia, basta che si mangia!» e chi avesse sognato felicità e ricchezza si sarebbe sentito ammonire con un «te la do io la Galindia!».
Nordici a Torino
La Lituania sarà l’ospite d’onore alla Fiera del libro di Torino. Oltre alla letteratura (una dozzina di narratori e poeti), la Lituania ha molte frecce al suo arco: la musica (eccellenti jazzisti), il barocco, il teatro (atteso a Torino il regista Eimuntas Nekrosius).Ma si parlerà anche di Europa, di cosa significa essere cattolici oggi (con il cardinale di Vilnius, Audrys Juozas Backis); di morte e rinascita del comunismo, con l’ex-premier lituano Vytautas Landsbergis e ci sarà un omaggio ad A.J. Greimas, uno dei fondatori della moderna semiologia.