
Fiera d’avanguardia
di Angela Vettese
Osservate i segnali incrociati e riuscirete a orientarvi persino in una fiera d’arte contemporanea, labirintica nella struttura fisica quanto in quella simbolica. Prendiamo Frieze, che si chiude oggi a Londra e che rapidamente è diventata numero uno nel mondo almeno per il settore dei più giovani.
L’appuntamento londinese è un buon esempio di cosa sappiano dirci questi eventi, al contempo so cool e so hot. Inventata da Matthew Slotover, anima anche della rivista omonima da cui la fiera ha iniziato i suoi passi, è co-diretta dall’energica Amanda Sharp e annovera molti splendidi quarantenni nel comitato che seleziona i partecipanti: Gavin Brown, Daniel Buchholz, Sadie Coles, Jeanne Greenberg, Cornelia Grassi, Maureen Paley, Eva Presenhuber e Tobey Webster. Frieze inizia la stagione delle fiere e ciò di cui parla verrà confermato dal Fiac di Parigi, da Miami Basel, da Art Cologne, da Art Basel. Ma anche dalla Biennale di Venezia, dalla Documenta di Kassel, da Project Sculptur di Munster che ci aspettano a giugno.
La folla è il primo dato certo: anche quest’anno, e forse più che in passato, gli stand erano talmente affollati dai collezionisti che – dicono alcuni galleristi – si è corso il rischio di vendere due volte lo stesso quadro. Seconda sicurezza: prezzi alti. Qualcuno teme il grande crollo e ricorda i primi anni Novanta, qualcun altro si consola pensando che da allora sono entrati nel gioco troppi investitori orientali perché si torni a dover temere la debacle. Che se sarà, peraltro, sarà improvvisa come sempre. Terzo dato: moltissimi americani. Sarà la comunanza di idioma, ma qui la maggioranza sono loro diversamente da quanto accade nelle fiere europee: 35 espositori statunitensi, a pari con quelli del paese ospitante e contro i 25 tedeschi, di solito i più numerosi. Tutto ciò rende Frieze un piccolo microcosmo credibile di ciò che accade nel mondo. Nove gli espositori italiani, con privilegio di riproduzione in catalogo per Cuoghi, Vezzoli e Beecroft.
Main sponsor è Deutsche Bank, cosa che parla chiaro sull’interesse crescente del mondo bancario per questo segmento di mercato e di gusto. Il quotidiano «The Guardian» è padrino mediatico della fiera, segno anche questo della ricerca di un pubblico raffinato, vasto ma non popolare. Che ci si orienti verso l’ambito del lusso lo spiega bene il coinvolgimento di Cartier, che supporta il premio più significativo a un artista: quest’anno è andato all’americana Mika Rottenberg (1976), che paradossalmente (ma non troppo: la produzione artistica da sempre ha una vocazione a fare da foglia di fico rispetto ai vizi dei propri mecenati) lavora prendendo in giro i tic borghesi. L’artista compare anche in una collettiva dedicata agli Stati Uniti dalla Serpentine Gallery, dove è neodirettore Hans Ulrich Obrist. Fuori del palazzotto di Kensington, annuncia l’esposizione una cupola progettata da Rem Koolhaas fatta di molecole sintetiche ed elio. Là dentro ha avuto luogo una maratona di opinioni durata 24 ore. Che cosa c’entra con la Fiera? Quasi niente e moltissimo: in questi giorni Londra è diventata tutta quanta una grande expo, non solo d’arte ma anche di opinioni.
Va sottolineato come la presenza della medesima artista in fiera e fuori conferma il consenso. Mercato e critica si incrociano spesso: la stessa cosa accade a un protagonista della performance come Chris Burden, presentato dentro Frieze da De Carlo e da Krinzinger ma con una personale pubblica alla South London Gallery; accade anche a un grande come David Hockey, che ha una mostra spettacolare alla National Portrait Gallery ma che compare a Frieze da Annely Juda. Karsten Hoeller ha copertine di riviste, la sala delle Turbine alla Tate Modern ed è in fiera grazie a Gagosian. Tutti indizi da non sottovalutare.
Anche le tendenze più generali vivono questi incroci: alla Biennale Cinema di Venezia artisti tanto lontani come Piotr Uklanski e Mimmo Paladino hanno voluto mostrare due film in pellicola. Guarda caso, la sezione «solo cultura/niente mercato» ha incluso un festival di film d’artista eccezionale. Lo stesso vale per la performance, iperpresente, con la solita Marina Abramovic che porta qui (dopo il Guggenheim di New York) le sue letture di eventi performativi inventati da altri. Come a dire: ormai è un linguaggio così classico e svincolato dal corpo del suo autore che se ne possono usare le partiture come spartiti musicali. Vanno la Cina e l’India ma i prezzi dei loro autori sono ancora un po’ bassi. Tra i fotografi Ruff vince su Struth dopo anni di gara sofferta. Tra i pittori primeggia ancora John Currin, anche se nei corridoi di Frieze si parlava di Laura Owens, protagonista di un’antologica al Camden Center.
Qualche santone improvvisato dirà che sono solo marionette e che il sistema dell’arte è una bufala, dimenticando a memoria secoli di storia della committenza. Ma se un artista passa da un museo a uno stand, se lo si incontra in una collettiva di emergenti e poi di nuovo in una monografia e nella collezione di un museo, i risultati vanno ben oltre i soldi. Col tempo entra nei libri e da lì si fa beffe di chi non ha avuto voglia capirlo. Perché diciamolo: è una fatica bestiale e qualcuno preferisce evitarla.