
E MILANO INVENTA LA FIERA DELLA QUALITÀ
Il Piq (Prodotto interno di qualità) vale un terzo del Pil. Dopo il lancio della Soft economy è questo il futuro del Made in Italy. Parola di Ermete Realacci. Che insieme a fondazioni, banche e imprenditori scommette sul 2007. A partire dalla nuova Campionaria. A guardarla così, come una data da segnare in agenda, sembra roba lontana: quindici mesi, un giro e qualche spicciolo di calendario. Eppure i lavori sono già in corso, perché i fili da riannodare sono tanti e l’occasione storica, davvero: a marzo 2007 Milano e l’Italia riavranno la loro Fiera Campionaria, riveduta e corretta secondo le necessità di oggi. Addio (o quasi) meccanica e industria pesante, si punta tutto sulla Soft economy. Formula azzeccatissima che, ormai da qualche tempo, indica quella fetta imponente di produzione nostrana trasversale ai settori (moda e hi-tech, turismo e ambiente, agroalimentare e finanza) ma accomunata da un punto: la ricerca della qualità. «È la missione che spetta al Made in Italy del futuro», spiega Ermete Realacci, deputato della Margherita, presidente onorario di Legambiente e, soprattutto, presidente di Symbola, la Fondazione per l’Italia delle qualità che raccoglie mondi diversi (banche, associazioni ambientaliste, imprese, enti locali) e personaggi altrettanto eterogenei (da Alessandro Profumo a Carlìn Petrini, passando per Diego Della Valle, Domenico De Masi, Carlo De Benedetti e tanti altri). Il Corriere Magazine se ne è occupato spesso, seguendo un percorso che dalla nascita, nel luglio scorso, ha già segnato tappe importanti. Convegni. Seminari. Dibattiti. Persino un libro ( Soft economy , appunto, scritto a quattro mani da Realacci e Antonio Cianciullo, Bur) che raccoglie storie di imprese e realtà di eccellenza, e che in quattro mesi ha infilato quattro edizioni, 18 mila copie e una serie di presentazioni da tutto esaurito. «In una delle ultime, a Firenze, proprio Della Valle ha detto che se avesse letto un libro così quando ha iniziato lui gli sarebbe venuta ancora più voglia di provarci», racconta Realacci. Ecco, in fondo la chiave di Symbola è proprio questa: raccogliere le forze e riaccendere la voglia di fare, e bene. Anche la «Campionaria delle Qualità» nasce da lì. Da un accordo tra Symbola ed Expocts, l’azienda a maggioranza Fiera Milano spa che già organizza manifestazioni come la Bit (Borsa del turismo). «Non sarà una fiera di settore, ma di tendenza», dice Realacci. Un punto di apertura sull’estero, perché farà da vetrina all’economia nostrana proprio come la vecchia Campionaria, chiusa nel 1990 per fare spazio alle esposizioni di settore. «Ma pure una foto di gruppo dell’Italia futura, che affonda radici in ciò che sa fare di meglio e proprio per questo può tornare a crescere». È una scommessa, chiaro. Ma vale la pena di azzardarla, perché di vene d’oro da scavare ce n’è ancora. E se si fanno i conti di «Quante divisioni ha la Qualità italiana», come farà la convention di Firenze del prossimo weekend che ha preso proprio questa provocazione come titolo, si rischia di imbattersi in parecchie sorprese positive. A cominciare dal Piq, il Prodotto interno di qualità: «Un modo per misurare quanta parte del nostro Prodotto interno lordo dipenda dalla produzione di eccellenza», dice Realacci. Modo serio, non spannometrico: a lavorare sul nuovo indicatore ci si è messa per mesi una task force di economisti. «Non è stato facile: abbiamo dovuto circoscrivere il perimetro, prima di provare a misurare», spiega Livio Barnabò, amministratore delegato di PE-Group, che coordina l’operazione: «Già definire la qualità è complicato. Figurarsi raccontarla in cifre». Il metodo? Un centinaio di persone contattate, tra consulenti e manager. Una quarantina a formare il panel, con esperti di tutti i settori («pubblico e privato, manifatturiero e servizi, con esperienza almeno decennale nel loro campo e indipendenti, senza interessi diretti in gioco»). Il contributo di nomi come Luigi Campiglio, Stefano Zamagni, Enzo Rullani, Giorgio Vittadini, l’ex ministro Domenico Siniscalco. Uno scambio fittissimo di stime e questionari. Risultato? «Anzitutto, molte conferme», dice Barnabò: «Uno: il Made in Italy non è solo ridotto a uno slogan, come sembra a leggere certe analisi di questi tempi, ma è ancora un patrimonio solido. I dati dicono che il livello di qualità resta più elevato proprio nei settori che vanno sotto questa etichetta. Due: c’è uno scarto tra la capacità di produrre eccellenza e quella di imporla sui mercati . Tre: a frenare il Piq è in gran parte la qualità dei servizi alle imprese, spesso troppo bassa. Ma sono solo spunti». E i numeri? «Per quelli tocca aspettare Firenze, perché ci sono da limare gli ultimi dati». Ma ad azzardare che il Piq valga più o meno un terzo del Pil non ci si sbaglia di molto, fanno capire da Symbola. Allora, vale la pena o no di scommetterci?