
«Il segreto? Conciliare arte e costi»
di Evelina Marchesini
Note e mattoni. Quando parla delle sue opere, come ha fatto in occasione del recente Forum di Scenari Immobiliari, Daniel Libeskind si muove lieve e veloce per poi impennarsi di passione e ridiscendere riflessivo a sottolineare qualche concetto. Più di tutto, sembra un concerto vivente. Forse non a caso è stato, prima ancora che architetto, musicista.
Che significato ha l’Italia per Daniel Libeskind?
L’Italia è la fonte della cultura, la culla della creatività ed è anche un luogo, per la precisione Milano, in cui ho vissuto con i miei figli, un posto quindi molto vicino al mio cuore.
Per quanto tempo ha vissuto a Milano?
Per quattro anni, mia figlia è nata qui. Questo soggiorno ha avuto un grandissimo impatto sulla mia vita.
Per la riqualificazione del polo urbano di Fiera Milano siete un pool di quattro grandi architetti internazionali, provenienti dai quattro angoli del globo. Come fate a generare un unico progetto?
Beh, il progetto che abbiamo creato si basa proprio sulle differenze fra le nostre impostazioni e la bellezza dell’insieme. Cosa sarebbe la musica se venisse suonata sempre la stessa nota? L’armonia e la pluralità sono il segreto. Milano è una città di grande storia e cultura, il punto era come prendere questa storia, come allargarla a un luogo nuovo che abbia un parco, un quartiere residenziale, uno terziario e che fonda tutto insieme. Lavorare con architetti diversi, ciascuno con la propria maniera di esprimersi, è una coreografia di questa armonia. Non è semplicemente uno schema astratto di un architetto o due a caso, ma è una vera e propria connessione a Milano.
Sì, però a Milano non avete un quartier generale, lavorate in Giappone, negli Stati Uniti, a Londra: come riuscite a incontrarvi e dove vi ritrovate fisicamente?
Oh, ci conosciamo da anni, non siamo degli estranei, abbiamo lavorato insieme per anni e siamo anche amici, non soltanto architetti. Ci incontriamo a Firenze, a Londra, a New York, a Milano naturalmente, a Tokyo. In quest’epoca di internazionalizzazione non siamo certamente noi i provinciali che si confinano in spazi locali. È un’apertura, la nostra.
Una volta lei ha affermato che l’architettura è la macchina che ha prodotto l’universo che ha prodotto gli dei. Che cosa significa?
Beh, semplicemente che gli architetti in un certo senso sono più vicini a noi, a causa dell’orientamento. Non so: una finestra, una porta che si apre su un orizzonte, il mondo è quello che si crea grazie all’orientamento. L’orientamento che viene dall’architettura nelle città, in luoghi che ci collegano: non è qualcosa di astratto come leggere un libro, è la vera fonte di tutte le nostre idee.
Vorrei anche aggiungere che tutto ciò è un’entità spirituale. Non si tratta solo di acciaio, cemento o vetro, ma di qualcosa che deve collegare la gente ed essere il centro di tutto. Quando a Milano ci si troverà in mezzo a questo nuovo quartiere ci si accorgerà che è in grado di riunire e soprattutto che è formato da spirito umano, la stessa cosa che già rende così unica Milano.
Secondo lei, oggi, cosa c’è di nuovo nell’architettura?
Sa che cosa? La riscoperta delle sue possibilità. È un vero rinascimento, la gente ha riscoperto che l’architettura è un’arte e che le città sono opere d’arte, non semplicemente macchinari e infrastrutture ma sono anche i piaceri e i festeggiamenti che fanno parte della vita, collegati alla famiglia, ai figli, alla crescita della società. Questa secondo me è la chiave della nuova scoperta.
Che cosa è l’etica nell’architettura?
Oh, molto semplice. L’etica sono gli altri.
Bisogna creare una sorta di palcoscenico dove tutti possano entrare, sentirsi a casa, godere della bellezza e del significato che è insito in un luogo.
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L’architettura può coinvolgere tutti e cinque i sensi o alla fine ci si limita alla vista?
Ottima domanda. L’architettura non è soltanto una fotografia, una cartolina. È quello ma anche molto più di quello. C’è qualcosa di molto più sensuale, possiamo goderne come se ascoltassimo un concerto di Beethoven o una fuga di Bach. È molto importante l’acustica di un luogo. Questo luogo, poi, in qualche modo deve toccarci e non soltanto i piedi.
Lei un tempo era un musicista, poi è passato all’architettura: come ha mischiato note e mattoni?
La musica è parte di noi, è un’emozione, ci trascende, ci travolge ed è però estremamente precisa e strutturata. Anche l’architettura è un’orchestrazione, sono varie voci che bisogna essere in grado di armonizzare per mettere insieme varie scale.
Quale progetto le ha dato più soddisfazioni?
Ho la fortuna di essere coinvolto in molti progetti interessanti e per me è come un libro, ogni progetto deve raccontare una storia che talvolta ripesca in una tradizione che non si sapeva nemmeno che esistesse. Ogni luogo ha la sua storia, non si può paragonare Ground Zero con la Fiera di Milano. Ciascuno deve fare parte di quella storia che voglio raccontare in quello specifico luogo.
Che suggerimento darebbe ai giovani architetti italiani?
Innanzitutto direi loro che il mondo è aperto e che viviamo in un mondo fantastico. Anche se spesso è attaccato dal male, chiede di andare al di là dei rischi e di mettersi in contatto con i cuori della gente e tutto questo deve incentivare l’architetto a mettersi in cammino.
Ma c’è spazio per i giovani architetti italiani oggi?
Assolutamente. Una delle culture che più danno ispirazione nel mondo è quella italiana e quindi l’architettura e la creatività non possono essere secondarie proprio in Italia. Ma, ancora una volta, ripeto che non bisogna essere provinciali, non è più un piccolo mondo, ormai le finestre sono spalancate, c’è una nuova età che ci ingloba.
Come siete riusciti a conciliare un progetto così innovativo come Fiera Milano con gli inevitabili vincoli di budget?
Sappiamo che nel mondo ci sono cinque elementi, l’acqua, il fuoco, l’aria, la terra e…i soldi. Sappiamo che il mercato fa parte della realtà, io non sono mai stato una di quelle prime donne che pretende di progettare qualcosa e avere poi un imperatore che la costruirà così com’è. La concilazione del progetto con il quadro economico è sempre stata la sfida dell’architettura, nel passato così come nel presente e lo sarà anche nel futuro. Perciò bisogna fare in modo che ciò che è bello rientri in qualche cosa di possibile, non soltanto economicamente ma anche socialmente.
Ora sta progettando uffici, per Fiera Milano. Pensa che gli uffici oltre che belli possano anche essere un buon posto in cui lavorare?
Assolutamente, le due cose non possono più essere scollegate, la gente ormai si rifiuta di essere messa in scatole anonime, chi lavora deve avere dignità. Poi gli uffici devono essere funzionali, accessibili per le relazioni sociali. Così la mia torre per Fiera Milano non è soltanto un’altra ennesima torre ma è qualcosa che vuol dare importanza ai rapporti della gente che ci sta dentro.
Oltre che a Milano, dove sta lavorando in Italia?
Mi sto occupando di un progetto a Brescia, già in costruzione, e ribadisco, per me l’Italia non è soltanto un Paese su una carta geografica, è decisamente qualcosa di più. E quindi sono felice di poter lavorare nel vostro Paese.
Dunque in generale è soddisfatto…
In generale mi ritengo molto fortunato a poter lavorare come architetto e ogni volta a qualcosa di significativo. Pensiamo a Ground Zero: è la fatalità di un giorno che oggi richiede di ricreare qualcosa, soprattutto di residenziale, per ridare fiducia alla gente. Tutto ciò ha un senso profondo, che coinvolge la stessa democrazia che, per fortuna, non è mediocrità ma il coinvolgimento di tutti. Il che va molto al di là di un governo centrale talvolta troppo distante.
L’IDENTIKIT
– Daniel Libeskind è un architetto americano nato il 12 maggio 1946 a Lodz in Polonia, figlio di due sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. All’età di 13 anni emigra negli Stati Uniti e a 17 anni ottiene la nazionalità statunitense. Studia musica in Israele, ma poi la abbandona per intraprendere degli studi di architettura alla Cooper union for the advancement of science and art di New York dove si laurea nel 1970. È professore onorario presso diverse prestigiose scuole di architettura in tutto il mondo. Ha inoltre ricevuto numerosi riconoscimenti. Nel febbraio 2003 ha vinto il progetto per la ricostruzione di Ground Zero con un complesso sopra il quale svetta la Freedom Tower (torre della libertà) alta 541 metri, cioè 1.776 piedi, numero simbolico che corrisponde all’anno della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti. Fa parte del team di quattro architetti che realizzerà la riqualificazione di Fiera Milano.
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