Rassegna stampa

Tre mega-torri nel quartiere storico

A proposito del Nuovo polo fieristico di Pero, l’assessore all’Urbanistica Gianni Verga ama dire che “finalmente Milano può”. Se però allarghiamo lo sguardo a quello che sta per succedere nell’area del quartiere storico della Fiera, sarebbe il caso di dire che “finalmente a Milano si può”.
Certo, in città c’è ancora tanta incredulità sul fatto che si costruirà davvero: come non capire, visto che il solo cantiere “importante”, in centro, di cui i cinquantenni milanesi abbiano memoria è quello, lunghissimo e contrastatissimo, del Piccolo Teatro. Ci sono dubbi, perplessità, timori: come non comprendere, visto che l’unica, grande operazione di recupero di un’area urbana a Milano è stata quella della Bicocca, quantomeno un’occasione mancata.
Le perplessità resteranno. E anzi a lavori terminati, nel 2014, le polemiche saranno feroci, le contrapposizioni dei giudizi durissime. Almeno lo speriamo, perché è giusto e bello che sia così. Che una città viva, partecipe, intelligente si divida nel valutare il modo in cui cambia, in cui viene trasformata una sua parte. E che parte! Stiamo parlando di 255mila metri quadrati in pieno centro, quel “recinto” dove da un secolo batte il cuore economico e commerciale di Milano. Dove l’Italia dell’industria, della tecnologia, della moda, del design si è sempre messa in mostra. Sfidando in questa vetrina il meglio della concorrenza internazionale.
L’incredulità sull’effettiva realizzazione dell’intervento è invece destinata a svanire. Tra un anno, quando le ruspe cominceranno a scavare e a demolire. Perché c’è un contratto. Ma soprattutto perché i tre attori di questa vicenda non hanno alcun interesse a fare un passo indietro. Non la cordata vincitrice, ovviamente. Non la Fondazione Fiera, alla quale i 523 milioni incassati per la cessione dell’area servono per finanziare la costruzione del Polo esterno. Non il Comune, che in periodo elettorale (si voterà nella primavera del 2006) avrà bisogno di mettere carne nel piatto, non di toglierne.
Già, i 523 milioni. C’è chi parla di una cifra esagerata. Ed effettivamente la Fiera, che aveva piazzato l’asticella a quota 310 milioni, non si aspettava tanto. Ma Ugo Debernardi, direttore di Generali Properties e presidente/amministratore delegato di CityLife, è sicuro di sé: “Spenderemo 1,6/1,7 miliardi e ne incasseremo due”. Va detto che nei giorni immediatamente successivi all’aggiudicazione, CityLife ha ricevuto circa duecento telelefonate di gente che chiedeva di prenotare uno dei 1.500 appartamenti previsti dal progetto. Che, oggi, si prevede di vendere a 6,5 milioni medi al metro quadro.
Ma facciamo un passo indietro, per sottolineare alcuni aspetti innovativi che rendono questa operazione unica nel panorama italiano e per certi versi in quello mondiale. Intanto la procedura scelta dalla Fiera. “Noi stessi non sapevamo bene come muoverci”, spiega Claudio Artusi, responsabile di Sviluppo Sistema Fiera e braccio destro del presidente Luigi Roth. “Non volevamo limitarci a vendere il terreno, senza un controllo su quello che sarebbe stato costruito. E neppure fare l’ennesimo concorso di progettazione, magari destinato a finire in un cassetto. E così abbiamo inventato una cosa che io ho battezzato vendita-concorso”. Prima la qualità architettonica, insomma. E poi, una volta fatta la selezione, definita la short list, i quattrini.
La seconda novità assoluta è che si unissero, appunto in CityLife, i tre maggiori gruppi assicurativi italiani: Generali, Ras e FonSai. Con l’aggiunta dell’impresa di costruzioni Lamaro e, in posizione decisamente più defilata, il developer spagnolo Lar.
Infine è del tutto anomalo, ed è questa la prima mondiale, che tre star dell’architettura internazionale (in questo caso Arata Isozaki, Zaha Hadid e Daniel Libeskind) lavorino insieme sullo stesso progetto. Normalmente ciascuno fa il suo pezzo di città per conto proprio, in assoluta autonomia e indipendenza. Oppure c’è uno che fa il masterplan e gli altri progettano i singoli edifici, o quartieri. Qui, invece, siamo in presenza di un vero lavoro di squadra. Pur con tutti i problemi, le difficoltà, i momenti di tensione che ci sono stati.
L’idea di percorrere questa strada, affascinante ma impervia, è del quarto architetto del gruppo vincitore – il torinese Pier Paolo Maggiora, che da vent’anni ragiona proprio sul tema del dialogo in architettura e che da tempo sta lavorando con Isozaki – e dello storico d’architettura, nonché direttore di “Casabella”, Franceso Dal Co.
“La sfida era di tale livello – spiega quest’ultimo – che non si poteva rispondere in modo banale. Perché qui si trattava di immaginare per Milano una sorta di nuovo centro, di secondo centro. Le città sono frutto di un processo di mescolanza, di commistione, di aggregazione di cose diverse. Di solito è il tempo il grande architetto di questo processo. Ma qui bisognava fare tutto insieme, in contemporanea. E allora era inevitabile optare per una molteplicità di teste. Avendo anche cura che fossero portatrici di culture diverse. Ecco quindi una donna musulmana, nata a Baghdad, che ha studiato a Beirut e a Londra, un giapponese scintoista e un ebreo americano, nato in Polonia e passato da Israele”.
Debernardi ammette che lui aveva pensato al catalano Ricardo Bofill, a Piano, a Foster e Gehry. Ma il primo ha declinato l’invito, il secondo era già impegnato con Pirelli e gli ultimi due con Risanamento, anche loro in gara. Poi però Debernardi si è ricordato di Maggiora e delle sue tesi sul dialogo.
Non sono mancate le scintille, in particolare tra la Hadid e Libeskind. Ma la maionese, pian piano, ha preso. Un centinaio di architetti dei quattro studi si sono messi al lavoro, dialogando tra loro 24 ore su 24, grazie al gioco dei fusi orari. E sono nati gli oggetti che oggi vediamo sul plastico, o nei rendering, e che domani segneranno profondamente la città. A partire dalle tre torri: quella rigorosa, elegante di Isozaki (è anche la più alta, 210 metri), quella attorcigliata della Hadid (175 metri) e quella curva di Libeskind (150 metri), una porzione di cupola che sembra appartenere più al mondo del design che a quello dell’architettura. Sotto, le case (ma qualche appartamento forse troverà posto anche nei grattacieli), il Museo e il Centro del design, il gigantesco laboratorio per bambini e anziani. E 130mila metri quadrati di verde, più della berlinese Postdamer Platz.
Qualcuno troverà il nuovo quartiere bellissimo, altri bruttissimo. Ma intanto Milano si muove. Torna, dopo un’assenza davvero troppo lunga, sul mercato urbanistico e architettonico internazionale. L’augurio è che ci resti.

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